Banche venete, l'epilogo. Altro che bail-out

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Giugno 2017

Ci risiamo. Dopo nemmeno due anni dal triste epilogo delle 4 banche regionali del novembre 2015, contribuenti e risparmiatori italiani sono di nuovo chiamati a pagare per ripianare le perdite di Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Il piano messo a punto dal Governo – col placet della Commissione Europea – prevede la cessione a Intesa, al prezzo simbolico di 1 euro, della “parte sana” delle banche venete (vale a dire i crediti in bonis e altre attività e passività di buona qualità), la liquidazione dei due istituti e la cessione della “parte cattiva” (18 miliardi di euro di crediti deteriorati) alla SGA, la Società per Gestione di Attività istituita nel 1996 per il salvataggio del Banco di Napoli.



Lo schema è quello classico della spartizione delle banche in crisi in due parti: da un lato la bad bank, dove la SGA si occuperà del recupero dei crediti problematici, e dall’altro la good bank che Intesa acquisisce a condizioni estremamente favorevoli. Non solo perché fa cherry picking selezionando a suo gradimento gli attivi delle due banche venete (compresi 26 miliardi di crediti in bonis a basso rischio) ma anche perché ha dettato al Governo tutte le condizioni per la propria discesa in campo. Si sa: business is business, e così Intesa ha ottenuto dallo Stato 4,785 miliardi di euro pronta cassa più altri 12 miliardi di garanzie pubbliche.



La soluzione adottata ha permesso di evitare il bail-in salvaguardando depositanti e portatori di bond senior dei due istituti e colpendo solo i titolari di azioni e obbligazioni subordinate (c.d. burden sharing). Ciononostante la perdita per la collettività è molto elevata e i benefici assai scarsi. L’impegno complessivo dello Stato ammonta a 17 miliardi di euro (4,784 cash + 12 di garanzie) cui si aggiungono i 2,5 miliardi delle ricapitalizzazioni delle due banche ora in liquidazione versati solo un anno fa dal Fondo Atlante finanziato dalle principali banche italiane che ora dovranno iscrivere in bilancio una perdita del 100%. A questi si aggiungeranno le perdite sui bond subordinati in mano agli investitori istituzionali (1 miliardo) e al retail (180 milioni) le cui quotazioni sono precipitate intorno a 1 € su 100 di nominale.



Ricapitolando: Intesa ci mette 1 euro e si porta a casa le mele buone mentre lo Stato ci mette dai 5 ai 17 miliardi e si porta a casa i non-performing loans delle due banche venete. Infatti i NPL sono stati ceduti alla SGA che, un anno fa, il Governo Renzi ha acquistato per 600.000 euro proprio da Intesa esercitando il diritto di pegno di cui il Tesoro godeva sin dal 1996 per destinarla all’«acquisto sul mercato di crediti, partecipazioni e altre attività finanziarie». Sulla SGA vale la pena di ricordare qualche dato: dopo una difficile fase iniziale, la società ha saputo recuperare con successo le esposizioni creditizie cedutele dal vecchio Banco di Napoli anche grazie alla bolla immobiliare di inizio anni duemila, il che le ha consentito di mettere da parte un tesoretto di mezzo miliardo.



L’entrata in gioco della SGA suggerisce che c’era una valida alternativa all’ingresso di un player privato: per il suo tramite lo Stato avrebbe dovuto acquisire anche la titolarità dei rapporti in bonis dei due istituti anziché regalarli a Intesa. Ciò avrebbe mitigato i costi dell’operazione per i contribuenti italiani che di fatto si accolleranno larga parte degli oneri dovuti alla mala gestio pluriennale delle due banche in liquidazione, magari sotto forma di rincari dell’IVA o di ritorno dell’imposta sulla prima casa, o di ulteriori tagli a sanità o pensioni. Ed è davvero una magra consolazione ricordare che l’operazione non aumenterà ulteriormente il deficit in quanto già spesata nel decreto “salva-risparmio” di fine 2016. Anche perché il decreto ha stanziato risorse pubbliche per 20 miliardi di euro: se questi fondi vengono assorbiti dal dossier venete, che faremo con l’altro malato terminale, il Monte dei Paschi, e i suoi 27 miliardi di NPL lordi?



Sul piano tecnico un coinvolgimento esclusivo della SGA si sarebbe potuto concretizzare sotto-forma di una cartolarizzazione degli attivi delle banche venete, con la creazione di un veicolo finalizzato a rilevare la totalità dei crediti dei due istituti finanziandosi con l’emissione di titoli c.d. asset-backed (ABS). La cessione al veicolo non solo dei crediti deteriorati ma anche di quelli in bonis avrebbe innalzato la qualità complessiva degli ABS consentendo migliori condizioni di finanziamento e limitando l’esborso pubblico. Ulteriori innesti di ingegneria finanziaria – ad esempio la previsione di una tranche di qualità intermedia (c.d. mezzanina) assistita da garanzie statali – avrebbero facilitato il perfezionamento di una cartolarizzazione di dimensioni elevate a costi contenuti, verosimilmente ben sotto i 12 miliardi di garanzie del piano deciso dal Governo.



Chiaramente una simile alternativa avrebbe rischiato l’opposizione dell’Euro-burocrazia, vera regista dell’operazione “venete” insieme ad Intesa. Infatti, formalmente la SGA è diventata pubblica solo nel 2016, mentre prima lo Stato deteneva il diritto di pegno sulla società. Perciò la Commissione Europea avrebbe potuto ravvisare una violazione della disciplina sugli aiuti di Stato. In altri termini, la via di una nazionalizzazione “intelligente” delle banche venete è stata esclusa ex ante, evitando di andare allo scontro con l’Europa su un tema che, invece, è obiettivamente opinabile. Dopotutto, la SGA è sempre stata pubblica dato che – proprio in virtù del diritto di pegno – lo Stato italiano ha sempre detenuto de facto un’opzione di acquisto sull’intera società (oltre che il diritto agli utili). E questo è un elemento sostanziale che si sarebbe dovuto portare all’attenzione degli Euro-burocrati. Invece, anche questa volta, si è optato per una soluzione che socializza le perdite e trasferisce gli asset profittevoli a un soggetto privato per limitare – solo nella forma – l’intervento pubblico.



Il problema evidente è che una simile interazione con i partner europei è perdente e ci condanna tutti a seguire le direttive della Germania: rinviare il completamento dell’Unione Bancaria e del Fondo europeo di tutela dei depositi e segregare i rischi della periferia applicando regole opinabili. L’assurdo è che l’iniquità di queste regole è sotto gli occhi di tutti dato che sono venute fuori solo dopo che la Germania si era immunizzata arrivando a detenere circa la metà della proprietà delle banche domestiche. Sembra un beffa. Ma è solo l’Europa a due velocità.

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