L’estensione della flat tax per gli autonomi realizza una separazione netta tra il regime fiscale di lavoratori dipendenti e pensionati, da un lato, e lavoratori autonomi e professionisti, dall’altro. Un caso limite di trattamento fiscale preferenziale nel panorama dei paesi avanzati
Una misura gravemente distorsiva del mercato del lavoro e con effetti iniqui. Un professionista con reddito di 50.000 euro pagherà un’aliquota marginale inferiore a un terzo di quella pagata da un lavoratore dipendente con lo stesso reddito
Difficile comprendere come ciò sia conciliabile con il dettato costituzionale per cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”
A quanto pare la flat tax (nota anche come regime forfettario) per lavoratori autonomi e professionisti verrà estesa ai soggetti con ricavi fino a 85.000 euro. Lo schema, attualmente limitato entro la soglia di 65.000 euro, sostituisce Irpef e relative addizionali regionale e comunale con un’imposta proporzionale del 15%. L’adesione comporta inoltre l’esenzione da IVA e IRAP e, solo per i lavoratori autonomi, la possibilità di uno sconto del 35% dei contributi INPS. Dalle dichiarazioni dei redditi 2019 emerge che circa un milione e mezzo di contribuenti ha aderito al regime con soglia fissata a 65.000 euro, più del doppio dell’anno precedente quando la soglia era 30.000 euro (Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva del 2022). L’ulteriore estensione implicherà che di fatto rientrerà nel regime forfettario la quasi totalità dei professionisti e larga parte dei lavoratori autonomi. Viene così a realizzarsi una separazione netta tra il regime fiscale di lavoratori dipendenti e pensionati, da un lato, e lavoratori autonomi e professionisti, dall’altro. Per la sua ampiezza, si tratta, almeno tra i paesi avanzati, di un caso limite di trattamento preferenziale.
Gli effetti negativi dello schema sono vari e ben noti. Genera inefficienze nello stesso settore del lavoro autonomo, in quanto disincentiva l’adozione di forme organizzative più complesse (meglio lavorare da soli che in uno studio associato) e l’acquisto di beni strumentali (i costi degli investimenti non sono deducibili). Più in generale è distorsivo rispetto alla scelta della forma di occupazione tra lavoro dipendente e autonomo (la quota del lavoro autonomo sull’occupazione in Italia è il doppio di quella di Francia e Germania e in Europa è inferiore solo a Grecia e Romania, siamo certi che sia una buona idea farla aumentare?). La giustificazione, utilizzata anche in altri casi, per cui lo schema favorisce l’emersione di base imponibile va considerata seriamente ma la dimensione dello sconto fiscale è talmente grande che con ogni probabilità il guadagno di gettito da chi emerge è largamente insufficiente a compensare la perdita di gettito da chi già pagava (come è stato documentato per la cedolare secca sugli affitti). L’altra giustificazione avanzata, quella della semplificazione, è francamente risibile. Poteva ancora essere valida per il regime precedente al 2019, con una soglia di 30.000 euro di ricavi (corrispondente comunque a un reddito pari a quello medio), certamente non con la nuova soglia che ci porta nel 5-10% dei contribuenti più ricchi.
Ma queste sono forse considerazioni da economisti, troppo astratte per persone pratiche. Comprensibile per tutti è, nella sua concretezza, la conseguenza sull’equità del sistema. Consideriamo un professionista con compensi nei pressi della nuova soglia di 85.000 euro, il suo reddito imputato sarà ben superiore al limite dell’ultimo scaglione Irpef, pari a 50.000 euro. Un lavoratore dipendente con quel reddito paga un’aliquota marginale (incluse le addizionali) superiore al 47%: più del triplo dell’aliquota marginale del 15% cui è soggetto il professionista.
Durante la campagna elettorale c’è stata molta discussione sulla tesi secondo cui le proposte di flat tax avanzate da Lega e Forza Italia avrebbero violato il principio di progressività sancito dal secondo comma dell’art. 53 della Costituzione (cosa tecnicamente non necessariamente vera). Lo stesso articolo al primo comma afferma che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Davvero difficile comprendere quali elementi possano rendere la capacità contributiva di un professionista pari a meno di un terzo di quella di un lavoratore dipendente con lo stesso reddito. E, per inciso, un bell’esempio di federalismo malato (singolare, vista la parte da cui proviene la proposta): perché mai lo stesso soggetto non dovrebbe contribuire alle spese né del suo comune né della sua regione?
Ma alla fine forse la motivazione è soltanto quella di favorire, seppure in misura sproporzionata, un segmento importante del proprio elettorato.
Leave a comment