Ringrazio i partecipanti a questo incontro di studio e i molti collegati da remoto.
Presiedo questo evento in quanto “presidente emerito” del Nens poiché il nuovo presidente, il Professor Pisauro, è impegnato come relatore.
L’argomento che trattiamo oggi, l’autonomia differenziata, è di stretta attualità. In effetti siamo stati fortunati che il nostro convegno avesse luogo solo pochi giorni dopo l’approvazione del provvedimento sull’autonomia differenziata da parte del Consiglio dei ministri.
Ma in verità viviamo oggi anche una sorta di “giorno della marmotta” che, come sapete, ricorre il 2 febbraio, in quanto ci troviamo ancora una volta a discutere, in modo ossessivamente ripetitivo, argomenti a lungo affrontati in passato.
Per esempio, nei giorni scorsi ho recuperato un rapporto del Nens del 2008 che discuteva la legge delega per la riforma in senso federale della finanza pubblica italiana in relazione sia al prelievo tributario che alla attribuzione della responsabilità della spesa pubblica e alla distribuzione delle risorse sul territorio nazionale.
Allora, come oggi, il ministro era Roberto Calderoli.
Le preoccupazioni che emergevano allora sono le stesse di oggi, e così gli effetti probabili delle riforme proposte. Emergevano allora preoccupazioni in relazione alla parità di trattamento tra i cittadini, e preoccupazioni derivanti dal vincolo delle risorse disponibili, sottolineando come la riforma proposta avrebbe determinato un significativo aumento delle risorse destinate al nord con un incremento della spesa pubblica che avrebbe dovuto essere finanziato o con un aumento della tassazione (cosa improbabile), o mediante una drastica riduzione dei servizi erogati, o con un aumento del disavanzo di bilancio e del debito pubblico, o con una riduzione della risorse destinate al sud.
Come si vede, le questioni in discussione sono le stesse su cui si dibatte oggi. Vedremo se anche le conclusioni saranno le stesse, in quanto la delega Calderoli rimase inattuata, salvo la parte relativa alla attribuzione alle Regioni delle risorse per la sanità, ripartite alla fine secondo buon senso, in base a un pro capite corretto per l’età della popolazione.
Tutto ciò ci riporta a ragionare ancora una volta a riflettere sull’idea stessa di federalismo, e sulle sue conseguenze.
A fondamento del decentramento delle funzioni di governo vi è da un lato il principio di sussidiarietà, e quindi la opportunità di una corrispondenza dei livelli amministrativi rispetto alla fruizione del bene o servizio pubblico, e dall’altro la distinzione, a livello economico, tra beni pubblici centrali, locali o sovranazionali che in base alla loro natura dovrebbero essere prodotti e gestiti a livelli diversi per ragioni di efficienza economica. Ambedue gli approcci suggeriscono l’opportunità di un certo grado di decentramento.
Va considerato tuttavia che le ricerche empiriche hanno dimostrato in modo esaustivo che alle iniziative concrete di devoluzione corrisponde un aumento delle diseguaglianze che può essere più o meno giustificabile ed accettabile. Si tratta di una questione che va tenuta sempre presente.
Inoltre, va ricordato che la distinzione tra competenze esclusive e concorrenti cui il nostro Titolo V fa ricorso è molto incerta. In concreto, a ben vedere, salvo attività con un impatto limitato, non esistono funzioni esclusive attribuibili con certezza agli enti decentrati, in quanto esistono sempre effetti esterni (di “traboccamento”), e quindi sovrapposizioni potenziali di competenze, tra enti sovraordinati e sotto ordinati, che andrebbero gestite, per ragioni di efficienza, mediante trasferimenti, o competenze parzialmente congiunte, come avviene in tutti i Paesi. Senza dimenticare che gli assetti federali, o così detti, variano nel tempo e nello spazio, in quanto l’evoluzione dei sistemi economici può suggerire di trasferire competenze da un livello amministrativo ad un altro; inoltre se si guardano le esperienze concrete dei diversi Paesi, si può verificare che le soluzioni adottate in concreto sono molto diverse: vi sono beni che alcuni Paesi decentrano, e che altri mantengono accentrati, stati unitari con finanze molto decentrate e stati federali con finanze centralizzate. Ed infine negli ultimi decenni si è manifestata una chiara tendenza alla attribuzione di funzioni importanti ad entità sovranazionali.
Ne deriva che la soluzione adottata dal nostro Titolo V è errata e pericolosa. Meglio sarebbe stato inserire a livello costituzionale esclusivamente il principio di sussidiarietà e quello della prevalenza dell’interesse nazionale, e lasciare alla legge ordinaria l’articolazione concreta del processo di attribuzione delle funzioni specifiche, in modo da lasciare una sufficiente flessibilità al sistema.
Ed ancora, alla attribuzione di poteri di spesa dovrebbe in teoria corrispondere una adeguata responsabilità fiscale autonoma, in modo da evitare facili fenomeni di free riding. Ma è proprio questo che le proposte Calderoli evitano con cura: il modello di riferimento, infatti, è quello delle Regioni a statuto speciale che beneficiano di sostanziali autonomie e mantengono il gettito fiscale localmente prodotto. L’estensione di tale modello sarebbe la fine dell’unità amministrativa e politica del Paese. Il problema ormai maturo sarebbe piuttosto quello opposto e cioè quello di superare la “specialità” di alcune Regioni che si giustificava in base a considerazioni di carattere economico e politico oggi in gran parte superate.
Un’ultima notazione: l’approccio finora seguito dagli “autonomisti del nord” per giustificare le loro richieste è quello di far ricorso al concetto di residuo fiscale che sarebbe impropriamente trasferito allo Stato centrale dopo essere stato prodotto a livello locale. In verità si tratta di un concetto che si basa su un’illusione ottica: in uno Stato unitario, federale o centralizzato che sia, è logicamente giusto che ogni individuo benefici dello stesso livello di servizi derivanti dalla spesa pubblica, pagando al tempo stesso, a parità di capacità contributiva, le medesime imposte. Questo è l’unico criterio che andrebbe rispettato (e non lo è certo in Italia). All’interno di uno stesso paese il fatto che, per esempio, in Lombardia vi siano più individui ricchi che pagano più tasse rispetto a quanto accade in Calabria, è del tutto irrilevante, e non se ne dovrebbe tenere conto. Ma è proprio questa la ragione del contendere ieri come oggi.
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