Le politiche economiche che non aiutano le donne

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Marzo 2024

Discriminate e povere sul lavoro ma anche come pensionate e nella loro condizione di madri, di disoccupate, caregiver, disabili, vittime della violenza di genere: le donne sembrano il principale bersaglio della politica economica del governo guidato dalla prima Presidente del Consiglio della storia. È questo il paradosso che emerge da un primo bilancio dei provvedimenti presi – e ancor più dei tanti necessari e non attuati – nella manovra finanziaria 2024 che attraversano la condizione femminile.

Tasso di occupazione femminile, il più basso d’Europa

Poche occupate guadagnano mediamente meno degli uomini e alla nascita dei figli sono loro a restare a casa per ragioni economiche e culturali. Gli ultimi dati dell’Ufficio studi della Camera dei deputati, elaborati incrociando i dati su “donne lavoro e maternità”, sono disarmanti. Il tasso di occupazione femminile in Italia è il più basso d’Europa, indietro di 14 punti rispetto alla media dei paesi Ue. E pur costituendo la maggioranza della popolazione italiana, il numero delle donne occupate si ferma a circa 9 milioni e mezzo, mentre gli uomini al lavoro superano i 13 milioni. “Il dossier della Camera conferma le nostre preoccupazioni”, commenta Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil. “Da tempo – prosegue Ghiglione – denunciamo l’assenza di politiche, e relativi investimenti, in grado di abbattere i divari di genere, in particolare quelli occupazionali e salariali; il fatto che una donna su cinque smetta di lavorare per problemi di conciliazione della vita lavorativa con la nascita di un figlio e per valutazioni di carattere principalmente economico evidenzia come anche questo governo, nonostante i tanti proclami, stia fallendo anche da questo punto di vista”.

Il gap di genere erode i salari

Ancora secondo il dossier della Camera, la differenza tra il salario annuale medio percepito in Italia dalle donne rispetto agli occupati uomini è pari al 43% a discapito delle prime.

Un gap al di sopra della pur negativa media europea, che si ferma però al 36,2%. Lavoro e maternità nel paese sono praticamente inconciliabili: il tasso di occupazione delle donne con figli sotto i 6 anni è del 55% mentre quello delle non mamme si attesta oltre il 77%.

Pensionamento flessibile: Ape sociale, Quota 103 e Opzione donna, ma solo per poche

Dopo la legge Monti-Fornero, le donne continuano ad essere il soggetto sociale più penalizzato dal sistema previdenziale, ma il governo Meloni prova a far cassa ancora sulle loro pensioni. Con la legge di bilancio nel 2024 saranno solo 3.760 le donne che potranno accedere complessivamente ad Ape sociale, Quota 103 e Opzione donna. Si azzera così di fatto qualsiasi forma previdenziale di flessibilità in uscita, costringendo le lavoratrici al pensionamento di vecchiaia a 67 anni. A evidenziare la stretta legislativa è l’Ufficio politiche previdenziali della Cgil nazionale, in uno studio in cui si analizzano le misure della legge di bilancio 2024 e si elaborano i dati dal monitoraggio dei flussi di pensionamento dell’Inps. Nonostante le tante promesse del governo, le donne esonerate dalla legge Fornero saranno pochissime. Nel dettaglio, come spiega il responsabile delle politiche previdenziali della Confederazione, Ezio Cigna, Quota 103 è una misura praticamente inutile che riguarderà solo gli uomini, perché coloro che avranno 41 anni di contributi e 62 anni di età nel 2024 hanno già perfezionato i requisiti di Opzione donna al 2021, ossia almeno 35 anni di contribuzione e 58 di età”. Quindi, nessuna donna avrà accesso alla nuova quota. Ma non basta. “Per quanto riguarda Opzione donna 2024 – prosegue Cigna – secondo le nostre stime riguarderà solo 250 donne: il governo aveva promesso di riportare la misura ai requisiti previgenti, ma è riuscito invece a peggiorarla con l’aumento del requisito di età di un anno (da 60 anni a 61 entro il 31 dicembre 2023) e l’azzeramento previsto nella scorsa legge di bilancio. Stessa cosa su Ape sociale – un trattamento previdenziale aperto anche ai caregiver familiari da almeno 6 mesi – dove l’aumento dell’età necessaria passa da 63 anni a 63 anni e 5 mesi e impatterà in particolare sulle donne. Solo 3.510 potranno usufruire di questa misura, contro le 9.000 domande complessivamente stimate.

Crollano le pensioni anticipate e gli assegni Inps

Il monitoraggio del sindacato sui flussi di pensionamento conferma un’accentuata e costante penalizzazione delle donne, in particolare per gli effetti delle misure previdenziali messe in campo legate all’azzeramento della flessibilità in uscita e al taglio per i dipendenti pubblici. Come si può rilevare dalla stima Cgil c’è una forte contrazione delle pensioni anticipate: dal 2022 al 2026 le posizioni liquidate passeranno da 107.520 a 29.556. Un calo significativo, pari al 72,5%. Anche dal punto di vista degli importi degli assegni, l’Inps certifica evidenti diseguaglianze: se quelli degli uomini crescono leggermente, per le donne diminuiscono del 17%. Per quanto riguarda le pensioni anticipate, considerando il valore mediano, si registra una differenza di 353 euro: si passa dai 2.111 euro degli uomini ai 1.758 euro per le donne.

Nella tenaglia dell’abolizione del Reddito di cittadinanza e la pandemia

Le persone colpite dall’abolizione del Reddito di cittadinanza sono in maggioranza donne. Gli ultimi dati diffusi dall’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, anche questa soppressa dalla ministra Calderone, dicono che l’incidenza delle donne con basso titolo di studio e scarse competenze tra quelle che accedevano al sussidio, era particolarmente elevato, il 77,2% contro il 69% degli uomini. L’impatto che la cancellazione di questo beneficio sul già traballante equilibrio nel quale vivono molte donne in Italia è quindi significativo. Oltre la metà delle under 35 non raggiunge i 15 mila euro di reddito annuo complessivo, contro il 32,5% dei coetanei maschi. Tra i 30 e 39 anni, il 14,5% delle lavoratrici è in uno stato di povertà assoluta rispetto al 6,8% degli uomini, percentuale che sale al 22% se consideriamo anche chi si trova in povertà relativa e al 38,5% per i redditi complessivi fino a 15 mila euro. Anche la ricaduta della crisi economica e occupazionale dovuta alla pandemia ha pesato di più sulla condizione delle donne: 900 mila dei posti di lavoro persi dopo il 2021 riguardavano lavoratrici. Non sorprende che in quello stesso periodo il 57,5% delle domande di Reddito di cittadinanza, il 54% delle richieste per l’accesso al Reddito di emergenza (anche questo abolito) e il 61,3% per la Naspi, l’indennità mensile di disoccupazione, sono state presentate da donne. Maternità e lavoro, i conti non tornano Il 63% delle neomamme è costretta a rinunciare al lavoro per seguire i figli e la ragione principale dell’abbandono è economica.

Secondo l’indagine condotta da Altroconsumo sulle città di Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Genova, Napoli e Palermo la retta mensile per un asilo pubblico, quando c’è, si aggira intorno ai 500 euro per una famiglia con un Isee di 30 mila euro, a Milano e Torino, poco meno a Firenze. Per i nidi privati la retta media sale a 640 euro al mese, con un picco di 800 euro mensili a Milano. Nel 2002 l’Unione europea aveva stabilito uno standard minimo da raggiungere entro otto anni: un posto disponibile per il 33% dei bambini, poi aggiornato per arrivare al 45% entro il 2030. L’Italia è ancora al 28%. L’Olanda è al 74%, seguita dalla Danimarca con il 69,1% e da Francia e Spagna con oltre il 50%.

Con il Piano nazionale di ripresa e resilienza il governo si è dato l’obiettivo di realizzare 150 mila nuovi posti nei nidi, 100 mila in meno di quanto si era impegnato a fare inizialmente, aumentando soprattutto l’offerta al Sud, dove si registrano le carenze maggiori. Nelle indagini condotte sul campo si rileva che spesso la lavoratrice madre rimane a casa ad occuparsi dei figli perché economicamente più conveniente che assoldare chi si occupi di loro. Si rinuncia poi al reddito della madre e non del padre perché il salario maschile medio è assai più alto di quello femminile. Il “bonus nido”, largamente insufficiente, è stato aumentato, ma anche questo provvedimento premia le persone che vivono nei contesti già maggiormente tutelati. La maggior parte dei posti disponibili per questi servizi sono infatti concentrati nel Nord del paese e nelle graduatorie per accedere ai pochi disponibili fa punteggio che la mamma abbia un’occupazione. Osserva ancora Ghiglione: «È inutile finanziare i ‘bonus nido’ se poi i nidi non ci sono proprio dove servirebbero di più, ad esempio nel Mezzogiorno».

Quanto costa cambiare il pannolino di un neonato

Nonostante le accuse di negare uno degli obiettivi principali proclamati dal governo, invertire la curva del calo della natalità, la manovra ha confermato l’aumento dell’Iva sui prodotti per la prima infanzia. È tornata così al 10% l’Imposta sul valore aggiunto per latte, preparazioni alimentari per lattanti, pannolini e seggiolini per bambini da installare negli autoveicoli. Per questi ultimi l’Iva passa dal 5% al 22%. Stessa cosa per assorbenti, tamponi e coppette mestruali. L’aliquota Iva su questi prodotti, ridotta al 5% nella passata legge di bilancio, è stata rialzata nel 2024. Sotto questo profilo va considerato che, mentre se si abbassa l’Iva non è detto che questo si rifletta sui prezzi di un mercato poco concorrenziale dominato da alcune multinazionali, è più probabile che accada il contrario, quando si alza l’aliquota. Secondo studi accreditati l’effetto dei due provvedimenti è generalmente asimmetrico ed è quello che potrebbe accadere con maggiore probabilità sul mercato italiano nei prossimi mesi. Secondo uno studio condotto dal sito Play Like Mum, una famiglia italiana con un bimbo piccolo spende solo nel primo mese circa 327 euro per pannolini, salviette e pasta protettiva. Una cifra da record. Prima di noi, infatti, ci sono solo gli Stati Uniti e il Messico, dove la cifra arriva a toccare i 560 euro. In Francia, un cambio costa 63 centesimi (23 per il pannolino e 40 per le salviette), in Austria 57 centesimi (21 per il pannolino e 36 per le salviette). A conti fatti da noi pulire un bambino costa il doppio che in Germania, dove la spesa per un cambio si aggira intorno ai 52 centesimi (21 per il pannolino e 31 per le salviette).

Con il cosiddetto “bonus mamme” il governo ha ridotto i contributi solo alle lavoratrici a tempo indeterminato che fanno il terzo figlio, senza peraltro mettere un limite di reddito oltre il quale non si ha diritto al beneficio. Il sostegno non si rivolge quindi alle più giovani e alla maggioranza di lavoratrici che hanno in genere un solo figlio e quasi sempre un lavoro precario.

Donna e disabile? Attenta a Inps e Agenzia delle entrate

Essere donna, disabile e senza redditi per Inps e Agenzia delle entrate può diventare una miscela esplosiva. Dal 1° gennaio 2024 i figli che vivono all’esterno del nucleo di origine, indipendentemente dall’età e se non sono coniugati o con figli, sono” attratti” ai fini dell’Isee nel nucleo dei genitori nel caso siano fiscalmente a loro carico. Sono considerati a carico fiscale dei genitori quando non dispongano di un reddito superiore ai 2.850 euro annui. Potrebbe sembrare una disposizione innocua e un’evenienza poco frequente. Ma Carlo Giacobini, Direttore generale dell’Agenzia per i diritti delle persone con disabilità (promossa dall’Unione italiana ciechi e ipovedenti), formula un paio di esempi che la fanno comprendere meglio. Andrea, giovane con disabilità, dopo un difficile percorso di transizione alla vita adulta, ha trasferito la sua residenza in un miniappartamento dove vive con gli opportuni sostegni. Non ha redditi; i suoi genitori sono rimasti nella casa d’origine. Gli farebbe comodo poter contare sull’assegno di inclusione, ma quando redige l’Isee viene “attratto” in quello dei genitori e perde ogni possibilità di riceverlo.

Gina, persona con seri problemi di salute mentale, ha lasciato la casa della madre (vedova) e ha trasferito la sua residenza in un “gruppo appartamento”. Ha 50 anni, ricerca la sua indipendenza, ma non ha redditi imponibili; dunque, è virtualmente a carico fiscale della madre. Anche lei, “attratta” nel quadro reddituale materno, perde l’assegno di inclusione e ogni altra prestazione sociale che preveda la presentazione dell’Isee ordinario.

Si riduce la spesa sanitaria, a rischio ancora i consultori

Il definanziamento in termini reali della Sanità pubblica, su cui poggia parte della manovra di bilancio per il prossimo triennio, va ad aggravare un quadro in cui sono inseriti servizi che sono stati nel tempo volutamente depotenziati, per ragioni economiche ma soprattutto politiche, come la rete dei consultori famigliari. Gli ultimi dati disponibili dell’Istituto superiore di sanità risalgono al 2019: in Italia si contavano circa 1.800 consultori familiari, uno ogni 32.325 residenti, il 60% in meno dello standard minimo fissato dalla legge 34/1996, che ne prevede uno ogni 20 mila abitanti.

Solo due regioni (Valle d’Aosta e Basilicata) e una provincia autonoma, quella di Bolzano, erano in regola con la normativa. In dodici anni almeno 300 hanno chiuso i battenti e tanti continuano a chiudere, come quello di Largo De Benedetti a Milano, la cui sede è andata in vendita a privati, o il “Mi cuerpo es mio” di Catania, il consultorio autogestito sgomberato a pochi giorni dalle manifestazioni del 25 novembre e dai funerali di Giulia Cecchettin. “In alcuni casi vengono chiusi ‘temporaneamente’ per lavori per non essere più riaperti, molti risultano ancora attivi, ma sono stati privati di servizi, spazi, personale”, spiega una delle centinaia di attiviste che hanno manifestato ancora in questi giorni per opporsi al sistematico depotenziamento dei presìdi socio-sanitari, essenziali per l’assistenza a donne e adolescenti, andato di pari passo con i tagli lineari alla sanità territoriale.

Fondo antiviolenza finanziato, ma solo dall’opposizione

È solo grazie alle opposizioni parlamentari che hanno deciso di devolvere e concentrare i loro fondi a disposizione su questo capitolo quasi ignorato dalla maggioranza, se la legge di bilancio 2024 destina 40 milioni di euro alla prevenzione e al contrasto della violenza di genere. Per Lara Ghiglione “la coesione e la sinergia dell’opposizione su questo tema sono un segnale importante che, tra le altre cose, permetterà di incrementare i finanziamenti ai centri antiviolenza, al reddito di libertà, alla formazione, potenziando il piano nazionale antiviolenza, lo strumento più idoneo per garantire un intervento sinergico e non intermittente, che invece il governo pare aver dimenticato”. Purtroppo, però, queste risorse non saranno sufficienti. Dal rapporto Istat Sistema di protezione per le donne vittime di violenza – anni 2021- 2022, risulta che il 94,1% delle Case rifugio si è dato criteri di esclusione dall’accoglienza delle ospiti, e che il 61,4% di esse ne ha introdotto di ulteriori in relazione ai figli e alle figlie delle ospiti.

Le escluse dai Servizi antiviolenza sono tutte donne che presentano spesso una compresenza di limitazioni o di fragilità che le espone a discriminazione multipla intersezionale (tra queste anche donne con disabilità). In genere le Case rifugio sono gestite dai Centri antiviolenza. “Non c’è posto per te” è il titolo della campagna di sensibilizzazione lanciata da una sessantina di associazioni nei mesi scorsi per combattere questa pratica ritenuta in contrasto con i princìpi di uguaglianza e non discriminazione enunciati nell’articolo 4 della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

Opposizioni all’attacco

Sono unanimi le critiche dei maggiori partiti di opposizione a una legge di bilancio definita una manovra “scritta sull’acqua” e che toglie efficacia e risorse a istituti faticosamente conquistati dalle lotte e dalle rivendicazioni delle donne, senza potenziarli e crearne di nuovi. “Tutte le forme di agevolazione che restano dopo la cura del governo sono connotate più a favore degli uomini che delle donne e quella previdenziale più tipica, “Opzione donna”, sempre stata penalizzante, è stata distrutta, tant’è che saranno pochissime quelle che riusciranno ad andare in pensione”, denuncia l’economista Cecilia Guerra, che fa parte della segreteria del Partito democratico con la delega alle politiche del lavoro. “Il governo poi fa molta propaganda sulle misure per la natalità – aggiunge la senatrice Pd –, ma le barriere per l’accesso agli asili nido sono altissime; sul territorio solo il 60% dei Comuni dispone di strutture; i posti sono troppo pochi e i criteri con cui si formano le graduatorie privilegiano chi già lavora, e questo comporta che la donna che non lavora e ha figli è rovinata perché prende un punteggio bassissimo”. “Dai provvedimenti presi dal governo è evidente che non c’è un riconoscimento della specificità della platea femminile”, attacca Alessandra Maiorino, coordinatrice del comitato Politiche di genere e diritti civili del Movimento 5 stelle. “Pensiamo – prosegue Maiorino – alla sostanziale cancellazione di ‘Opzione donna’ o al fatto che le lavoratrici precarie e autonome, o quelle con un solo figlio, sono tagliate fuori dal ‘bonus’ mamme; ciò non può che portare a un peggioramento della loro condizione, resa già precaria con la riduzione del welfare: nella famiglia, perché i carichi di lavoro continuano a rimanere sulle spalle delle donne, e nel mondo del lavoro”. “Oggi – conclude la senatrice M5s – con Giorgia Meloni essere donne in Italia è più difficile”.

 

 

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