Di Giuseppe Pisauro - Presidente Nens
Intervento al convegno L'Autonomia differenziata nella Repubblica "una e indivisibile" - 6 febbraio 2023
L’autonomia differenziata non apre solo una questione di squilibri territoriali e di equità. Le richieste delle tre regioni, tuttora prive di giustificazione, sono talmente numerose e pervasive da produrre una frammentazione inaccettabile delle politiche pubbliche.
L’enfasi sui LEP (livelli essenziali di prestazioni) è una foglia di fico che non risolverebbe le questioni in ballo. Essi riguarderebbero un numero molto limitato di materie e la loro definizione non sarebbe risolutiva per i livelli di spesa come dimostra l’esperienza della sanità dove esistono da tempo.
Serve una legge quadro che affronti la sostanza della questione, interpretando l’art. 116 della Costituzione per circoscrivere l’ambito delle materie trasferibili e chiarire la natura delle motivazioni accettabili a favore della differenziazione. Parallelamente, occorre completare il disegno dell’art. 117, con la determinazione da parte dello Stato dei principi fondamentali per le singole materie.
Sono due gli ambiti di questioni sollevati dal progetto di autonomia differenziata: l’effetto sugli squilibri territoriali (l’equità) e le implicazioni per disegno delle politiche pubbliche (l’equilibrio tra politiche nazionali e locali)
La discussione in queste settimane si sta concentrando sul peggioramento degli squilibri territoriali che, con ogni probabilità, deriverebbe dal progetto. Da qui l’attenzione sulle modalità di finanziamento delle richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e sulla necessità di salvaguardare chi risiede nelle altre regioni determinando i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il paese.
Sono certamente temi cruciali. Il desiderio di ottenere risorse finanziarie aggiuntive, trattenendo quote maggiori del gettito delle imposte statali raccolte nel proprio territorio, è il movente iniziale di tutta la vicenda e, infatti, scorrendo il dettaglio delle richieste ve ne sono numerose che implicano oneri aggiuntivi rispetto alla spesa attuale: dalla costituzione di fondi sanitari integrativi regionali all’istituzione di una cassa integrazione regionale e di forme collettive di previdenza integrativa. Questo solo per citarne alcune. Sulla stessa linea una formulazione estrema: nell’ambito dell’autonomia tributaria la “concessione di incentivi, contributi, agevolazioni, sovvenzioni e benefici di ogni genere” (richiesta da Lombardia e Veneto, dalle bozze di maggio 2019). Lo spazio si creerebbe garantendo il finanziamento della spesa statale attuale con compartecipazioni con aliquota fissata una volta per tutte. Simulazioni mostrano come ad esempio la dinamica gettito IVA nelle regioni richiedenti sia ben superiore alla dinamica della spesa per l’istruzione. Inutile dire che, ad esempio, la costituzione di fondi sanitari integrativi regionali significherebbe la fine del Servizio sanitario nazionale o che la possibilità di poter concedere agevolazioni “di ogni genere” aprirebbe la strada a forme incisive di concorrenza fiscale – di per sé dannose per il paese nel suo complesso - allo scopo, ad esempio, di influenzare le scelte di localizzazione di imprese.
C’è però da chiedersi: se non ci fosse una questione di equità, cadrebbero le obiezioni alle richieste di autonomia differenziata?
La risposta non può che essere negativa: le richieste delle tre regioni sono talmente numerose e pervasive da produrre una frammentazione inaccettabile delle politiche pubbliche. Lasciando da parte il tema della richiesta più importante (l’istruzione) che rappresenta il pericolo più grave e meriterebbe una trattazione separata, per fare alcuni esempi, quali conseguenze avrebbe la competenza legislativa regionale nella materia delle “grandi reti nazionali di trasporto e di navigazione” o nella “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”? Materie per le quali sarebbe da interrogarsi, semmai, sull’adeguatezza della dimensione nazionale.
E ancora, l’acquisizione al demanio regionale della rete ferroviaria e autostradale, l’approvazione delle infrastrutture strategiche anche di competenza statale, le competenze statali in materia di immigrazione o la definizione dell’equivalenza terapeutica tra medicinali o la ricerca? Quello che sorprende è che in un processo iniziato cinque anni fa, nel febbraio 2018 con il governo Gentiloni, finora nessuno abbia chiarito cosa giustifichi richieste del genere. Nelle tre intese sottoscritte nel 2019 dai presidenti delle regioni e dall’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte compare sempre la stessa formulazione: “l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della Regione e immediatamente funzionali alla sua crescita e al suo sviluppo”. Nessuna specificazione, nient’altro. Una lettura discutibile dell’art.116 (“Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie (…) possono essere attribuite”)
Gli schemi di legge quadro proposti dai ministri per gli affari regionali che si sono succeduti in questi anni (governi Conte 1 e 2, Draghi e Meloni) su questo sono silenti. Tutti affrontano, in qualche modo, il tema della definizione dei LEP, cosa opportuna e necessaria, ma che, tuttavia, non risolve le questioni in ballo (equità – lo dimostra l’esperienza della sanità - e frammentazione delle politiche pubbliche) e sembra piuttosto una foglia di fico. Innanzi tutto, i LEP riguarderebbero, oltre alla sanità per la quale sono già definiti da vent’anni (con la denominazione LEA, livelli essenziali di assistenza), un numero limitato di materie (istruzione, assistenza, trasporto locale). La loro definizione non sarebbe poi risolutiva per i livelli di spesa. L’esperienza della sanità lo dimostra: la spesa non è la somma del costo dei LEA (peraltro non ben definito) ma, come è opportuno che sia visto che esiste pur sempre un vincolo di bilancio, è determinata a monte nella programmazione del bilancio pubblico (insomma, il totale che si può spendere e non la somma di quanto si dovrebbe per garantire effettivamente i LEA). Il Ministero della salute ha il compito di monitorare il rispetto dei LEA ma, a giudicare dalla nostra esperienza di cittadini, non sembra farlo in modo abbastanza stringente: ad esempio, la durata del tempo di attesa per un esame di media complessità è superiore a un anno quasi ovunque.
Serve, invece, una legge quadro che affronti la sostanza della questione, interpretando l’art. 116 della Costituzione (quello su cui si basano le richieste di ulteriore autonomia). L’interpretazione attuale, desumibile dalle intese già raggiunte, di fatto comporta la trasformazione di tutte le regioni che lo vogliono in regioni a statuto speciale, con una procedura (che elude quella disegnata dall’art. 138) la cui costituzionalità è molto dubbia. Occorre, invece, circoscrivere l’ambito delle materie trasferibili e chiarire la natura delle motivazioni accettabili a favore della differenziazione. Insomma, cosa è trasferibile e in quali casi. Quello che non è accettabile è cambiare natura e forma dello Stato in ordine sparso senza un disegno complessivo.
Parallelamente, occorre completare il disegno dell’art. 117, con la determinazione da parte dello Stato dei principi fondamentali per le singole materie. È un passaggio decisivo – più della definizione dei LEP - per evitare la frammentazione delle politiche pubbliche. Se fosse stato compiuto a tempo debito avrebbe impedito eccessi di creatività nel disegno dei modelli di servizio sanitario regionale di cui abbiamo avuto prova nella fase acuta della pandemia (cui si sta cercando di porre rimedio con il PNRR, si veda il riparto dei fondi dell’investimento nell’assistenza domiciliare, di cui la Lombardia è il maggior destinatario). E può diventare l’occasione per una riflessione seria sul ruolo delle regioni a cinquant’anni dalla loro istituzione.
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