Di Tamara Gasparri
Olanda e Lussemburgo hanno interpretato nello scenario globale degli ultimi decenni il ruolo di giurisdizioni privilegiate di ‘transito’ (‘conduit’) e ‘d’approdo’ per multinazionali e grandi investitori esteri desiderosi di ridurre il proprio carico fiscale nei diversi Paesi del mondo in cui generano i profitti o in cui risiedono. Nei confronti dei propri contribuenti, Olanda e Lussemburgo sono Paesi a fiscalità ordinaria[1] ed inoltre non si appropriano, se non in minima parte, di imposte altrui; ‘semplicemente’ offrono sofisticati strumenti per evitare che altri Paesi in Europa e nel mondo applichino le proprie imposte: favorendo la canalizzazione dei profitti che attraggono dall’estero verso destinazioni estere ‘paradisiache’ o addirittura ‘parcheggiando’ questi medesimi profitti in stand by presso di sé, come se non appartenessero a nessuna giurisdizione (fossero cioè profitti ‘stateless’, ‘apolidi’) e, in quanto tali, da escludere da imposizione.
In particolare, questi Stati membri si sono specializzati nell’offerta di sofisticati exit points[2] per i profitti delle multinazionali in cambio di un piccolo margine su cui applicare le proprie imposte e, soprattutto, in cambio della creazione sul territorio nazionale di posti di lavoro attorno a cui si è formata, nel tempo, una fiorente industria finanziaria ad elevata specializzazione, costruita prevalentemente attorno ad holding (di finanziamento e/o di gestione) e royalty company. Un’industria che, in particolare per quanto riguarda l’Olanda, è in grado di rispondere a qualsiasi esigenza dei grandi gruppi multinazionali e degli investitori privati di elevato standing (attinente a tutti i profili d’interesse, di natura fiscale, di governance e gestione, di merger and acquisition e posizionamento globale, etc.) e che è ormai attrezzata per generare notevoli profitti anche con quote molto meno massicce di concorrenza fiscale dannosa quando – dall’anno in corso e negli anni a venire - anche questi Stati membri saranno chiamati a confrontarsi con le misure di contrasto dell’elusione internazionale raccomandate a livello internazionale nel contesto del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) dell’OCSE e soprattutto con le misure imposte, a livello europeo, dalle due direttive di contrasto dell’elusione (ATAD1 e ATAD2)[3] e dalle direttive sulla cooperazione amministrativa (DAC 1-6[4]) che impongono la trasparenza e lo scambio delle informazioni fiscali all’interno dell’Unione su una notevole massa di dati finanziari e non finanziari che riguardano, inter alias, gli accordi di ruling transfrontalieri (finora riservatissimi) tra contribuenti e Amministrazioni finanziarie; la rendicontazione da parte dei grandi gruppi multinazionali delle attività svolte, dei profitti realizzati e delle imposte pagate in ogni Paese del mondo (c.d, Country by Country Reporting); nonché la comunicazione di eventuali schemi di pianificazione fiscale aggressiva. Sarà necessario che le grandi economie dell’Unione - che come l’Italia, la Germania o la Francia hanno maggiormente subito la concorrenza fiscale dannosa di altri Stati membri – si attrezzino con competenze adeguate a proseguire una sfida destinata a spostarsi ulteriormente di livello.
Niente più dei dati relativi ai flussi di investimenti esteri diretti (foreign direct investment, FDI) - che transitano in ingresso (inward) e in uscita (outward) verso e da il Lussemburgo e l’Olanda – riesce meglio ad esprimere il ruolo ‘triangolare’ svolto da queste giurisdizioni nei processi di ‘canalizzazione’ di ingenti masse di capitali provenienti da tutto il mondo verso giurisdizioni opache e/o a fiscalità privilegiata.
Ricordiamo che nel linguaggio internazionale gli inward FDI si sostanziano in operazioni di acquisizione, da parte di investitori esteri, di quote qualificate di partecipazione (non inferiori al 10 per cento del capitale) in società (o altri enti) residenti in una determinata giurisdizione; operazioni che vengono effettuate con diverse modalità, mediante acquisti di pacchetti azionari o con complesse operazioni di merger and acquisition o, in prevalenza, attraverso la costituzione in loco di società controllate al 100 per cento. Simmetricamente, gli outward FDI connotano le operazioni di acquisizione di quote partecipazione, altrettanto qualificate, in entità estere da parte di un’entità domestica.
Orbene, l’Olanda è il Paese che, in valori assoluti, riesce ad attrarre l’ammontare maggiore di inward FDI (3.618.685 milioni di dollari nel 2015) e di outward FDI (4.285.080 milioni di dollari nel 2015)[5], il quintuplo dei valori raggiunti, ad esempio, dalla Germania[6] che, oltre ad essere la maggiore economia manifatturiera dell’Unione, ha una popolazione cinque volte superiore a quella dell’Olanda. In rapporto al PIL, è, invece, il Lussemburgo a collocarsi alla testa della classifica di Paese di gran lunga più attrattivo al mondo[7]. Ed analoga classifica emerge costantemente anche da altri report commissionati dal Fondo Monetario internazionale (FMI) e dai dati relativi al 2017 risultanti da un altro studio internazionale.[8]
Questi consistenti flussi di FDI diretti verso società residenti in Paesi dell’Unione che sono più piccoli dell’Italia e che non dispongono di un potenziale economico-industriale altrettanto strutturato sono espressione del peso crescente dei fondi di investimento (con destinazione privilegiata il Lussemburgo) e degli investimenti finanziari infragruppo (con transito privilegiato in Olanda) a livello globale. In larga parte, tuttavia, sono flussi riferibili a investimenti fantasma, c.d. ‘phantom investment’; che transitano da scatole vuote costituite dalle imprese multinazionali, per gestire al meglio – minimizzandone l’impatto fiscale - i finanziamenti infragruppo o la proprietà intellettuale degli Intangibles; ma senza contribuire effettivamente alla integrazione economica internazionale.
Secondo il FMI, più del 64 per cento degli inward FDI del 2016[9] è stato canalizzato tramite ‘veicoli vuoti’ infragruppo (special purpose entities, SPEs[10]) che inquinano e distorcono la reale significatività dei dati che, appunto, vedono il Lussemburgo e l’Olanda alle testa dei Paesi di destinazione degli investimenti diretti globali. Ed è la stessa Banca Centrale olandese a riconoscere che, nel 2017, ben il 60,7 per cento degli investimenti in ingresso nel territorio nazionale (per un totale di 4.554 miliardi di euro, due volte e mezzo il PIL dell’Italia) e il 54,4 per cento degli investimenti diretti verso estero (pari a 5.561 miliardi di euro) erano affluiti e defluiti attraverso le 15.000 società buca-lettere (Dutch Special Purpose Entities) presenti nel Paese[11].
Ed in effetti, la preminente intermediazione di questi veicoli societari – che, anche in ragione delle loro specifiche caratteristiche giuridiche e fiscali, sono concepiti come canali di transito per attrarre (da un lato) e (ri)trasferire (dall’altro) ingenti flussi di capitali da e verso tutte le possibili destinazioni, comprese le giurisdizioni più opache - comporta che non si riesca a conoscere quale sia, in realtà, la provenienza dei flussi di investimenti; né la loro effettiva destinazione finale. Olanda e Lussemburgo fungono da mere cinghie di trasmissione di capitali che affluiscono sul territorio nazionale a beneficio non di società dedite ad attività economiche reali, bensì a beneficio di veicoli societari vuoti (cui, per legge o per statuto, è quasi sempre precluso l’esercizio di un’attività economica); a partire dai quali vengono poi indirizzati, riservatamente, a sostegno di attività produttive e assets materiali e immateriali di vari Paesi del mondo[12].
A livello globale, su 40 trilioni di dollari di investimenti diretti, sarebbero ben 15 trilioni (pari al PIL di Cina e Germania) gli investimenti fantasma transitati nel 2017 tramite SPE[13]: di cui il 50 per cento in Lussemburgo e Olanda; e un ulteriore 35 per cento in Hong Kong, Virgin Islands, Bermuda, Singapore, Isole del Canale, Svizzera, Irlanda e Mauritius.[14]
Le grandi masse di investimenti fantasma in ingresso che si indirizzano verso le SPEs dimostrano che le entità domestiche dei gruppi multinazionali (MNEs) sono spesso coinvolte in strategie di aggressive tax planning (ATP). E, nel contempo, i flussi altrettanto rilevanti di investimenti in uscita verso altre empty shell estere indicano che le entità locali di Paesi come il Lussemburgo e l’Olanda riescono a non pagare imposte neppure nell’economia ospite[15]. I 4.500 miliardi di FDI transitati in Olanda nel 2017 tramite le 15.000 società buca-lettere si sono tradotti in basi imponibili, assoggettate a tassazione in Olanda, per soli 199 miliardi.[16].
In definitiva, gli ingenti flussi di phantom investment che coinvolgono in particolare alcuni Stati membri (primi fra tutti, Olanda e Lussemburgo) sono in gran parte rappresentativi di fenomeni di distoglimento di profitti dalle giurisdizioni ad alta fiscalità verso ‘porti’ più sicuri che garantiscono ai Paesi di transito solo piccoli margini di basi imponibili da assoggettare alle imposte domestiche.
Nello specifico, su un totale di oltre 24.000 miliardi di dollari di profitti che, nel 2017, i gruppi multinazionali sono riusciti a trasferire verso tutti i paradisi fiscali del mondo, più di 20.000 miliardi avevano trovato ‘riparo’ (temporaneo o definitivo) proprio nei paradisi dell’Unione europea[17].
A livello globale, l’Unione si presenta, infatti, come un territorio/cuscinetto particolarmente adatto per operazioni ‘triangolari’, in ragione della sua intrinseca ‘asimmetria’; ossia in ragione del fatto di essere, per un verso, un grande mercato comune in cui possono liberamente circolare persone, capitali ed attività economiche e, per un altro verso, un contesto in cui continuano a competere (non sempre lealmente) Stati sovrani differenti e in cui, proprio per questo, possono più facilmente crearsi “flussi artificiali di capitali e di movimenti artificiali di contribuenti nel mercato interno” come già osservava la Commissione nella propria risalente “Raccomandazione sulla pianificazione fiscale aggressiva “del 2012.[18]
Ed è in questo contesto, che si sono affermate come principali giurisdizioni ‘conduit’ a livello globale proprio Paesi dotati di istituzioni affidabili ed efficienti e che, in virtù dell’apparenza all’Unione, potevano invocare le libertà di circolazione e le relative tutele del diritto europeo. Ed era per certi aspetti inevitabile che, all’interno dell’Unione, si accreditassero questo specifico ruolo Stati membri relativamente piccoli e con economie meno strutturate sotto il profilo manifatturiero (non sostenute, cioè, da un diffuso e forte tessuto domestico di imprese, grandi e piccole); Stati che - anche per questo oltre che per cultura e tradizione giuridica - potevano più facilmente accordare benefici ‘selettivi’ (confezionati come ‘abiti su misura’) ai gruppi di imprese estere, senza interferire in modo troppo rilevante sul sistema economico e sull’ordinamento fiscale domestici e riuscendo a preservare, almeno in apparenza, i fondamentali principi di equità e uguaglianza di trattamento. Ed in effetti, per decenni le rispettive Amministrazioni finanziarie hanno concluso nella più assoluta riservatezza accordi preventivi taylor made con ciascuno dei più grandi gruppi esteri; con essi condividendo anche gli schemi più complessi di elusione transfrontaliera, in un contesto di accesa concorrenza fiscale sleale: come del resto risulta anche dalle varie contestazioni, in tema di aiuti di Stato, mosse dalla DG Concorrenza della Commissione nei confronti di molti di questi tax ruling.
In conclusione, vi è una tendenziale sovrapposizione tra i Paesi destinatari dei phantom FDI e i Paesi presso cui si indirizzano (e da cui sono ri-trasferiti o reinvestiti) i profitti distolti dalle maggiori economie del mondo. A conferma del fatto che le strategie di aggressive tax planning delle MNEs sono ‘veicolate’ dai trasferimenti infragruppo di flussi di profitti ed elementi reddituali particolarmente mobili (interessi e royalty via SPEs) che attraversano e/o approdano in giurisdizioni ‘amiche’; saldandosi con le policy di harmful tax competition (HTC) di alcuni Governi europei.
Oltre il 50 per cento delle 500 più grandi multinazionali USA ha almeno una subsidiary in Olanda che si aggiudica il primato mondiale, seguita da Hong Kong, Singapore, Lussemburgo e Svizzera[19].
Specializzata, in particolare, in holding di gestione e in finance e royalty company, l’Olanda è un Paese molto attrattivo per la localizzazione delle sedi legali (anche intermedie) dei grandi gruppi multinazionali, a favore dei quali è riuscita a mettere a disposizione istituti di forte appeal fiscale (e non solo fiscale). Nel contesto di un regime generale di piena esenzione sui dividendi e capital gain che è stato riconosciuto a holding e subholding di qualsiasi tipo sin dal lontano 1986, l’Olanda ha costantemente intercettato le esigenze connesse con l’internazionalizzazione delle imprese fino ad accreditarsi come uno dei principali snodi di transito e di approdo dei profitti, e, in particolare, dei profitti erosi e distolti dalle giurisdizioni ad alta fiscalità.
Il primo problema che si è posto, a fronte dell’operatività internazionale dei gruppi d’imprese che producono redditi in vari Paesi del mondo (in particolare, attraverso la costituzione in loco di società controllate o stabili organizzazioni), è il ‘rimpatrio’ dei flussi di dividendi interessi e royalty dalle strutture periferiche verso la capogruppo estera: un problema che, come è noto, deriva dal fatto che, al momento del passaggio di frontiera, coesistono su questi elementi reddituali le pretese impositive sia dello Stato d’origine (c.d. Stato della fonte del reddito) sia dello Stato d’arrivo (c.d. Stato della residenza dell’investitore). Ed è per affrontare questo problema che, sin dalla prima metà del ‘900, si è ricorsi alla stipula delle convenzioni bilateriali contro le doppie imposizioni, le quali possono prevedere – in base alle policy e ai reciproci rapporti di forza dei due Stati contraenti - la rinuncia da parte dello Stato della fonte ad applicare le proprie imposte sui predetti flussi in uscita o, quantomeno, l’impegno ad applicare ritenute ad aliquote ridotte.
Orbene, da tempo risalente, l’Olanda si è dotata di un network estremamente vasto e attrattivo di quasi 100 convenzioni che prevedono l’esenzione per i flussi in uscita di dividendi interessi e royalty o, al più, prevedono ritenute particolarmente basse e competitive anche nei rapporti con i Paesi a fiscalità privilegiata; perseguendo con determinazione e chiarezza un’unica policy: fare dell’Olanda un Paese altamente attrattivo per gli investitori esteri[20]; o, come essi stessi si sono poi definiti, la principale ‘porta d’ingresso’ delle imprese multinazionali in Europa. La disponibilità di questa ampia raggiera di convenzioni bilaterali ha poi messo l’Olanda nella condizione di potere trarre il massimo vantaggio, per questo suo ruolo triangolare di giurisdizione ‘conduit’, anche dalle due direttive europee madre-figlia[21] e interessi e royalty[22] che - a determinate condizioni e nei rapporti tra consociate di due diversi Stati membri – prevedono l’obbligo dello Stato della fonte di esentare da ritenuta i flussi in uscita di dividendi, interessi e royalty. E ancora, l’Olanda ha nel tempo potenziato l’effetto sinergico delle disposizioni di fonte convenzionale e unionale con norme domestiche che, al fine di coprire residue lacune e asimmetrie, esentano da ogni prelievo, a determinate condizioni, anche i flussi di dividendi, interessi e royalty diretti verso giurisdizioni con le quali non sia stata stipulata alcuna convenzione.
La possibilità di invocare, nei rapporti tra Stati membri, i benefici delle direttive dell’Unione in sinergia con un network fortemente competitivo di convenzioni con un gran numero di Stati terzi, arricchito con ulteriori norme interne di vantaggio, si presenta, di per sé, come un ‘asset’ di grande appeal sul piano fiscale che semplifica i problemi fiscali (di doppia imposizione giuridica[23]) connessi con il rimpatrio ‘fisiologico’ dei normali flussi transfrontalieri nei gruppi d’impresa: motivo per cui anche le nostre grandi imprese a partecipazione statale hanno da tempo stabilito una o più subholding in Olanda. Un asset che, tuttavia, può prestare ad essere utilizzato anche per operazioni aggressive di treaty shopping; e cioè per intermediare – attraverso un veicolo ‘vuoto’ collocato in territorio olandese senza alcun reale motivo economico diverso da quello fiscale - operazioni effettivamente intercorse tra altri due Stati esteri (UE o extra UE) che, nei loro rapporti bilaterali, non potrebbero fruire né dell’esenzione (convenzionale o unionale), né dell’applicazione di aliquote particolarmente ridotte.
Lo schema-base di queste strategie è semplice e ben noto. Per minimizzare le ritenute che sarebbero ordinariamente applicabili (in base alla relativa convenzione bilaterale) ai flussi di dividendi, interessi o royalty che, ad esempio, escono dallo Stato terzo A verso lo Stato membro B, si procede a collocare una società intermedia in una giurisdizione conduit, ad esempio, l’Olanda. Questa interposizione consente di invocare (per i flussi in uscita da A) la convenzione tra A e l’Olanda (anziché quella, meno favorevole, tra A e B) e poi (per i flussi dall’Olanda allo Stato membro B) il regime di esenzione delle direttive madre-figlia o interessi e royalty oppure - ove non dovessero sussistere le condizioni di operatività delle direttive - la convenzione tra Olanda e B (anziché la convenzione, meno favorevole, tra A e B).
Orbene, l’atteggiamento del Governo olandese è stato di non ‘scoraggiare’ affatto l’utilizzo ‘abusivo’ di questo suo asset fiscale, costituito, appunto, dalla disponibilità di un network di convenzioni ampio e coerente utilizzabile in connessione sinergia con le direttive europee e con le norme domestiche introdotte, ad adiuvandum, per completare la fruibilità del regime di esenzione sui flussi in uscita. Anzi. Avvalendosi della flessibilità del proprio diritto societario, ha messo a disposizione degli operatori strutture societarie su misura – le c.d. pass through entity - per meglio favorire la ‘triangolazione’.
Le triangolazioni, finalizzate preminentemente ad escludere o ridurre le ritenute sui flussi transfrontalieri in transito da una giurisdizione all’altra, rappresentano solo un primo livello di convergenza tra le politiche di competizione fiscale dannosa (HTC) dei Governi e le strategie di pianificazione fiscale aggressiva (ATP) dei grandi gruppi multinazionali.
Con il progressivo affermarsi dei processi di internazionalizzazione e digitalizzazione e, in tempi più recenti, con l’ingresso in scena delle grandi imprese globali della new economy, la sfida ai sistemi fiscali dei Paesi del mondo in cui effettivamente vengono svolte le attività economiche e viene creata la ricchezza si è innalzata di livello; arrivando ad aggredire - non solo i diritti del Paese della fonte ad applicare le ritenute alla fonte sui flussi di profitti e altri elementi reddituali che, dalle società operative del gruppo residenti sul proprio territorio, si indirizzano a beneficio di altre consociate estere - bensì direttamente le basi imponibili realizzate (e tassabili) in loco dalle stesse società operative, in tutti i casi in cui, per ragioni di business, non si può fare a meno di localizzarle in Paesi ad alta fiscalità.
In questi casi, le strategie di erosione delle basi imponibili e di profit shifting transitano fondamentalmente per tre canali - via transfer pricing, via interest, via royalty – e cioè attraverso ardite operazioni di ristrutturazione aziendale e determinazione dei prezzi di trasferimento delle transazioni intercompany; nonché attraverso i pagamenti di interessi e royalty tra consociate. E comportano l’esigenza di fare approdare questi flussi in una giurisdizione con livello impositivo notevolmente più basso rispetto a quello del Paese di partenza.
A favore delle modalità attuative di tutte queste diverse strategie di ATP, l’Olanda è riuscita a ‘piantare le proprie bandierine’.
1. Le strategie via transfer pricing.
Nel contesto dei processi aziendali di ridefinizione delle modalità operative che, per restare competitivi sul mercato globale, hanno indotto i gruppi multinazionali ad organizzarsi come un’unica grande impresa globale, le entità locali hanno subito una profonda trasformazione. Da produttori ‘a tutto tondo’ sostanzialmente autonomi nella gestione della propria specifica attività, si sono specializzate in singoli settori e segmenti di attività che concorrono alla realizzazione dell’unica linea unitaria business (o delle molteplici linee unitarie dei business) del gruppo: eliminando duplicazioni e sovrapposizioni e moltiplicando le sinergie. Naturalmente ne è seguita la ridefinizione dei profitti da riconoscere, ai fini fiscali, alle entità locali sulla base dei criteri strettamente formalistici adottati nelle Guidelines OCSE sui prezzi di trasferimento prima del restyling seguito ai lavori del BEPS del 2015.
Una situazione, questa, di rottura rispetto al passato (quando ogni entità locale produceva in proprio, interloquiva direttamente con il mercato ed era in grado di misurare i propri profitti che poi potevano affluire in forma di dividendi alla capogruppo) che ha aperto enormi ‘praterie’ di intervento per eventuali strategie di ATP via transfer pricing. Attraverso meri accordi intercompany di trasferimento della tecnologia e dei rischi più rilevanti a vantaggio di altre consociate estere (le c.d. Principal), le unità locali del gruppo, in particolare quelle situate nei Paesi ad alta fiscalità (che, in precedenza, provvedevano a svolgere tutte le funzioni necessarie alla conduzione delle proprie attività di produzione o distribuzione, assumendosene tutti i relativi rischi) sono state ‘confinate’ (spesso più nella forma che nella sostanza) ad attività rutinarie di produzione o distribuzione in conto altrui: e, come tali, remunerate con piccoli margini, mentre tutti i restanti (extra)profitti delle diverse filiere di attività vengono attribuite alle rispettive società Principal del gruppo (opportunamente localizzate), anche quando esse non svolgevano in realtà alcuna effettiva funzione né erano in grado di sostenere i rischi su di esse nominalmente allocati.
Il punto è che, una volta che il profitto è prodotto e misurabile solo a livello di gruppo[24], può essere facile, remunerando poco le entità locali (in applicazione di criteri meramente formalistici) far lievitare, per differenza, grandi masse di (extra)profitti da attribuire ad holding o altre consociate in Paesi a bassa fiscalità[25] o, comunque, in Paesi ‘amici’, disposti a riconoscere che si tratta, ad esempio, di profitti derivanti da sinergie di gruppo (‘sovranazionali’) o, comunque, creati altrove in più giurisdizioni (‘apolidi’); e, quindi, disposti a concedere trattamenti fiscali di favore.
2. Le strategie via interessi e via royalty.
Inoltre, al medesimo fine di erodere ulteriormente le basi imponibili delle entità locali del gruppo che svolgono le proprie attività nei vari Paesi del mondo ad alta fiscalità, si procede a caricarle di royalty e interessi passivi anche al di fuori di qualsiasi effettiva esigenza economica. Nei rapporti infragruppo, è facile infatti far lievitare gli interessi e le royalty che possono essere addebitati come costi deducibili nella giurisdizione della target; facendo in modo, nel contempo, che i corrispondenti elementi reddituali attivi ‘riemergano’ a favore di una consociata estera a più bassa fiscalità o a favore di una ‘conduit’ che favorisca l’approdo in un paradiso[26]: e ciò in ragione del fatto che, per un verso, la ‘mobilità’ e la fungibilità del denaro comportano che sia estremamente facile sovracapitalizzare (o sottocapitalizzare) le diverse imprese di un gruppo; mentre, per un altro verso, i diritti di utilizzazione di un brand, di un brevetto, del know how e della proprietà intellettuale in genere possono, in ragione della loro immaterialità, essere spostati e attribuiti altrettanto facilmente alle consociate situate in giurisdizioni di comodo.
3. il fil rouge di ogni strategia di ATP è il ‘travaso’ dei flussi tra giurisdizioni con differente livello impositivo.
Le operazioni di pianificazione fiscale aggressiva sono notevolmente varie e differenziate. Le strategie via transfer pricing distolgono, infatti, masse di profitti attraverso l’impoverimento (formale) delle funzioni delle entità locali, in un contesto in cui ancora fatica a maturare il principio per cui - ove il profitto è prodotto unitariamente - è necessario trovare criteri di ripartizione degli (extra)profitti a vantaggio di tutte le entità del gruppo o non solo di alcune di esse[27]. Diversamente, le strategie via interest and royalty pervengono al medesimo risultato – e cioè all’erosione della base imponibile della società target - attraverso il trasferimento di singoli elementi reddituali particolarmente ‘mobili’.
E’ tuttavia rinvenibile un elemento comune a tutte queste strategie. Ed è la creazione di una ‘asimmetria’ transfrontaliera, consistente nel creare le condizioni per il ‘travaso’ di profitti o singoli elementi reddituali formatisi presso un’entità del gruppo in una giurisdizione ad alta fiscalità a vantaggio di un’altra entità del gruppo in una giurisdizione a più basso livello impositivo.
Sono, infatti, sempre necessari schemi a due (o più) entità e una adeguata ‘sponda’ di approdo e/o di transito dei profitti distolti o degli elementi reddituali attivi corrispondenti ai costi dedotti nei vari Paesi del mondo. Occorre aprire un canale di collegamento tra la giurisdizione di residenza della c.d. target (ossia la società ‘bersaglio’ appartenente al gruppo la cui base imponibile deve essere ridotta) e un’altra giurisdizione estera in cui collocare una diversa consociata, la c.d. lower tax entity (una società con un livello impositivo nullo o più basso) sulla quale fare poi confluire i profitti distolti dalla prima. In alcuni casi, le grandi multinazionali (MNEs) provvedono a collocare direttamente la lower tax entity in un vero e proprio ‘paradiso’ che non applica imposte; ma molto più frequentemente questo ‘travaso’ diretto (dal Paese della target verso una lower tax paradisiaca) non è possibile, anche (ma non solo) in ragione del fatto che la maggioranza dei Paesi del mondo (diversamente dall’Olanda e alcuni altri) applica tassi elevati di ritenute in uscita sui flussi destinati alle giurisdizioni a fiscalità privilegiata; con l’effetto che, in ipotesi, verrebbero del tutto vanificati i risparmi ritraibili dalle menzionate strategie di minimizzazione dei profitti delle società operative locali. Risulta, quindi, fondamentale (per sottrarre profitti da una target) ricorrere alla intermediazione di un Paese ‘amico’ in cui stabilire una ‘conduit entity’ che riceve e ritrasferisce i flussi di profitti destinati poi ad affluire verso la lower tax entity estera[28]: operazione nella quale la base imponibile della conduit è sostanzialmente azzerata tenuto conto che i dividendi sono esenti e che altri elementi reddituali positivi (interessi o royalty attivi) sono compensati dalla deducibilità dei corrispondenti elementi reddituali negativi (interessi e royalty passivi).
Ed anche in questo campo, l’Olanda si è attrezzata per diventare appetibile per i grandi gruppi, alzando il livello dell’offerta; proponendosi cioè, oltre che come Paese di transito verso altre sponde paradisiache, anche come porto di approdo, in grado di garantire la sostanziale non imponibilità ad una gran massa di questi profitti all’interno dei propri confini nazionali: ma riservatamente (senza violare in modo aperto il diritto dell’Unione con regimi speciali selettivi di fonte normativa) attraverso accordi amministrativi preventivi (ruling) e/o con la costruzione di schemi asimmetrici attraverso l’utilizzo delle SPEs in sinergia con entità e strumenti finanziari ‘ibridi’.
4. I tax ruling preventivi come strumenti essenziali di perfezionamento delle strategie di ATP via transfer pricing
1. Il transito verso i paradisi o il tranquillo ‘ricovero’ sul territorio nazionale (in posizione di sostanziale non imponibilità) dei profitti delle MNEs distolti dalle entità locali del gruppo per effetto delle politiche c.d. di transfer (mis)pricing presenta aspetti di tecnicismo talmente sofisticato da non potere prescindere dalla definizione di accordi di lungo periodo con la giurisdizione ospite. E l’Amministrazione finanziaria olandese ha assecondato e blindato queste politiche con accordi di ruling altamente riservati con cui venivano definiti, ex ante e case by case, i criteri di determinazione delle basi imponibili per un lungo periodo di tempo (in certi casi, per oltre un decennio).
La casistica delle contestazioni mosse dalla DG Concorrenza della Commissione ad alcuni di questi ruling sui prezzi di trasferimenti concessi su misura (‘taylor made’) dall’Olanda (ma anche dal Lussemburgo, Irlanda, Belgio, Malta) a beneficio delle grandi MNEs – in quanto ritenuti selettivi e quindi incompatibili con il divieto di aiuti di Stato - è una testimonianza eloquente dei modi ‘fantasiosi’ che sono stati di volta in volta utilizzati per limitare l’applicazione delle imposte locali ad una quota minima dei predetti (extra)profitti apolidi (distolti da altre giurisdizioni).[29] In coerenza con una logica di trade off finalizzata a scambiare investimenti (anche solo finanziari) e posti di lavoro contro benefici fiscali.
Il ruolo svolto dagli accordi amministrativi di ruling – in funzione di ‘supplenza’ e talora in ‘sostituzione’ delle stesse disposizioni di legge ordinariamente applicabili alla generalità dei contribuenti – ai fini della definizione agevolata delle basi imponibili delle holding o delle finance e royalty company appartenenti a grandi gruppi multinazionali esteri è noto da tempo ed è stato apertamente stigmatizzato nella stessa Risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2015, all’esito dei lavori di una Commissione Speciale che era stata incaricata di fare luce in materia. Nel Considerando X della Risoluzione viene infatti sottolineato che “i lavori della Commissione speciale hanno confermato che i ruling fiscali possono essere pronunciati al di fuori di qualunque quadro giuridico attraverso accordi informali o discrezionali, a sostegno di strutture fiscali che si basano su strumenti di pianificazione generalmente utilizzati dalle società multinazionali per ridurre i loro contributi fiscali”. A conferma del fatto che questi accordi erano diventati lo strumento privilegiato per concedere riservatamente, in via amministrativa, alle consociate di gruppi multinazionali esteri trattamenti fiscali di maggior favore rispetto alle singole imprese meramente domestiche[30]: trattamenti privilegiati che, in via legislativa, non avrebbero potuto essere accordati se non violando apertamente il diritto europeo al vaglio del Gruppo Codice di Condotta (istituito presso il Consiglio dell’Unione) e le disposizioni che vietano gli aiuti di Stato ‘selettivi’.
Al riguardo, è ormai in vigore anche in Olanda la direttiva c.d. DAC 3 che impone a tutti gli Stati membri lo scambio automatico delle informazioni relative a tutti gli accordi di ruling stipulati con i contribuenti che possono avere rilievo transfrontaliero. E, comunque, potrebbe essere possibile un atteggiamento intermedio tra la disinvoltura degli accordi ‘informali e discrezionali’ e le astratte disquisizioni di principio sull’indisponibilità dell’obbligazione tributaria (e simili) che troppo spesso irrigidiscono, in Italia, il rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuenti.
5. Il ruolo di Special Purpose Entities, in stretta connessione con enti e strumenti finanziari ‘ibridi’, nelle strategie di ATP via interest and royalty
L’Olanda dispone di istituti e strumenti molto flessibili anche per quanto riguarda il diritto societario che, inter alias, offre un ampio ventaglio di special purpose entities (SPEs): società a destinazione specifica con regimi fiscali e conformazione giuridica differenziati in funzione dei molti legittimi utilizzi cui sono destinate. Presentano tuttavia alcune caratteristiche comuni che le rendono fruibili prevalentemente da parte di investitori esteri.
Di norma, infatti, le SPEs – che sono istituti societari molto diffusi anche in altri Paesi membri, tra cui in particolare, il Lussemburgo – identificano società di finanziamento o detenzione ‘passiva’ di partecipazioni e proprietà intellettuale (IP); nonché veicoli societari strutturalmente ‘vuoti’, costituiti secondo la legislazione dello Stato ospite che, per legge o per statuto, non possono svolgere attività economica, né avere presenza fisica e dipendenti (se non, eventualmente, entro stretti limiti): partecipati pressoché in via esclusiva da investitori esteri, operano all’interno di un gruppo[31] o intermediano raccolte di capitali sul mercato da parte di un gruppo. E’ un mondo complesso, strettamente funzionale alle esigenze del mondo finanziario (dai fondi d’investimento alle operazioni di cartolarizzazione etc.), posto che, in particolare, proprio i veicoli ‘vuoti’ consentono - in ragione delle loro caratteristiche - di meglio ‘segregare’ i rischi di ciascuna operazione finanziaria evitando, a tutela degli investitori e dei risparmiatori, che la relativa remunerazione sia influenzata da eventuali perdite di altre operazioni e della società di gestione. Costituiscono strumenti indispensabili per facilitare l’accesso al mercato dei capitali sia da parte dei gruppi di imprese che da parte di risparmiatori grandi e piccoli dei vari Paesi del mondo; così come per le operazioni di acquisizione a debito (c.d. operazioni di leveraged by out) di imprese da parte dei fondi di private equity.
L’Olanda ha messo a disposizione del business un’offerta molto diversificata di veicoli e altre società a destinazione specifica che, a partire dalle due tipologie di base delle Dutch Intermediate Holding Company e delle Dutch Finance Company, si differenziano (giuridicamente e fiscalmente) a seconda che siano destinate a detenere partecipazioni o Intangibles oppure all’effettuazione di operazioni di finanziamento all’interno oppure all’esterno di un gruppo. E tutto ciò costituisce un asset importante a sostegno della competitività del sistema olandese, della sua industria finanziaria incentrata, appunto, su holding, IP finance company.
A mero titolo esemplificativo. Le Dutch Intermediate Holding Company godono del regime di esenzione di dividendi e capital gain, dell’esenzione delle ritenute sulle royalty in uscita e di molti altri vantaggi previsti dal codice civile per la governance. Possono accedere ai ruling preventivi per definire con l’Amministrazione finanziaria la fisvalità delle più complesse strutture internazionali. Comprendono strutture leggere – le conduit company e le channel money company utilizzate solo per trasferire denaro e pagamenti di dividendi e royalty - e strutture più complesse derivanti dalla centralizzazione in un unico soggetto – la Dutch Holding Company Plus - di più attività (holding, gestione delle royalty, attività operative di distribuzione. Le Dutch Intermediate holding with Suisse PE consentono di sfruttare le imposte agevolate svizzere per il reddito operativo della stabile organizzazione e di applicare sui flussi della stabile in uscita dalla Svizzera le ritenute ridotte o il regime di esenzione delle convenzioni stipulate dall’Olanda (Stato della casa madre) più favorevoli e vaste di quelle stipulate dalla Svizzera. Per quanto riguarda le società finanziarie, abbiamo veicoli diversi a seconda che i finanziamenti siano interamente interni al gruppo (con l’olandese che finanzia le consociate estere e che, a sua volta, si finanzia dal gruppo ad equity oppure a debito) o si proceda a raccogliere capitali sul mercato. Le Dutch Group Finance Company forniscono prestiti infragruppo. Sono finanziate ad equity da azionisti non residenti (e quindi non deducono in Olanda interessi passivi) e usano le liquidità ricevute per finanziarie a debito tutte le società del gruppo ovunque residenti; godono di un regime speciale di tassazione degli interessi attivi che comporta l’applicazione delle aliquote ordinarie soltanto sul 20 per cento degli interessi netti (con un tasso effettivo, qundi, del 5 per cento). Sono utilizzate soprattutto per massimizzare gli interessi passivi deducibili presso le società del gruppo nei Paesi ad alta fiscalità. Le Dutch finance conduit company si finanziano a debito dal gruppo e concedono prestiti ad altre società del gruppo di altri Paesi, in pratica compensano interessi passivi e attivi ed sono utilizzate per eliminare o ridurre le ritenute estere. Le Dutch fund raising vehicle raccolgono, invece, finanziamenti sul mercato a vantaggio di un gruppo o di specifiche società di un gruppo (attraverso la quotazione di titoli di debito in un mercato regolamentato o secondario) e sono utilizzate per eliminare o ridurre le ritenute sugli interessi da corrispondere ad investitori esteri terzi, sfruttando il differenziale positivo delle ritenute applicabili in base al network di convenzioni di cui è dotata l’Olanda e garantendo costi finanziamento competitivi. Le Dutch Royalty conduit consentono di attrarre in esenzione royalty dedotte dalle target degli altri Paesi membri (ai sensi della direttiva interessi e royalty), procedendo poi a compensare le royalty attive ricevute con le royalty passive dovute a consociate estere senza neppure applicare le ritenute in uscita perché le disposizioni domestiche olandesi non prevedono l’applicazione delle ritenute sulle royalty destinate a qualsiasi Paese. |
Un tale asset può tuttavia prestarsi - non tanto di per sé quanto piuttosto per l’utilizzo distorto che se ne può fare – a veicolare strategie di concorrenza sleale e pianificazione fiscale aggressiva. In particolare, quando specifiche tipologie di SPEs sono ‘corredate’ di regimi domestici di esenzione sui soliti flussi di dividendi e/o interessi e royalty che completano l’esonero dalle ritenute in entrata e in uscita di fonte unionale o convenzionale o sono inserite in più complessi schemi transfrontalieri per ‘giocare di sponda’ con strutture di altri ordinamenti, parimenti dediti alla concorrenza fiscale dannosa. E’ il caso, ad esempio, del ben noto schema del Dutch Sandwich with Double Irish[32] (utilizzato per molti anni - e disponibile fino a tutto il 2020 - da molte multinazionali USA, tra cui Google, Apple, Facebook, Linkedin etc), in cui una shell company olandese (completamente vuota) si interpone come veicolo intermedio tra due società irlandesi, con l’effetto di consentire il trasferimento in esenzione verso le Bermuda di grandi masse di royalty che altro non sono, in realtà, che la ‘trasfigurazione’ dei ricavi realizzati (senza prelievo di imposte) in vari Paesi del mondo da una delle due irlandesi per conto della capogruppo americana.
Ma un ulteriore salto di livello nelle strategie di ATP e HTC è stato reso possibile dalla costruzione di schemi e catene partecipative che comprendono società e/o strumenti finanziari ‘ibridi’.
Qui si entra in un contesto di esasperato tecnicismo di cui preme mettere in evidenza solo alcuni elementi. Di per sé, una società o uno strumento finanziario sono ‘ibridi’ semplicemente quando, ai fini fiscali, sono qualificati in modo diverso in due giurisdizioni interessate. Si tratta di contesti in cui, nel caso della società ‘ibrida’, un’entità è trattata nel Paese A - in cui risiede - come un soggetto passivo dell’imposta societaria (soggetto ‘opaco’); mentre nell’ottica del Paese B (in cui risiedono i soci/investitori) è considerata ‘trasparente’[33]. Al contrario, nel caso della società ‘ibrida inversa’, la società è ‘trasparente dal lato del Paese A - in cui è localizzata - ma è ‘opaca’ dal lato del Paese B di residenza dei soci/investitori. In ragione di questi differenti punti di vista – e trascurando i dettagli tecnici - le entità ‘ibride’ consentono di dedurre costi cui corrispondono elementi reddituali che non verranno tassati nella giurisdizione di destinazione (o consentono di duplicare la deduzione dei medesimi costi); viceversa, le entità ‘ibride inverse’ consentono di non tassare in alcuna giurisdizione gli interessi e le royalty che sono stati dedotti da altre entità in altre giurisdizioni[34]. Comportano cioè arbitraggi da cui possono derivare ‘deduzione senza inclusione’ o ‘doppia deduzione’.
Ed ancora; è ‘ibrido’ uno strumento finanziario (prestito subordinato, contratto derivato etc) che - per le sue complesse caratteristiche - è considerato uno strumento di debito nell’ottica del Paese A dell’emittente (che quindi deduce interessi passivi), mentre è qualificato come strumento partecipativo nell’ottica del Paese B dell’investitore (che, quindi, può godere del regime di esenzione previsto per i dividendi anziché del regime di imponibilità che si sarebbe applicato sugli interessi attivi se il Paese B avesse condiviso il medesimo punto di vista del Paese A): con un effetto, appunto, di ‘deduzione senza inclusione’.
Nelle operazioni transfrontaliere, queste asimmetrie di qualificazione fiscale di enti o strumenti finanziari – che sono sapientemente sfruttate delle MNEs - non sono altro che la conseguenza fisiologica delle differenze esistenti nei sistemi fiscali dei vari Paesi del mondo e non – quantomeno di norma - il risultato di una consapevole strategia dei relativi Governi che subiscono l’erosione delle proprie basi imponibili.
Questo è ciò che, di norma, accade. L’Olanda, tuttavia, è tra i Paesi che - fiutato l’affare - non hanno esitato a favorire consapevolmente il massiccio utilizzo nel proprio sistema fiscale domestico di queste strutture ibride, anche con norme e prassi studiate ad hoc, per fidelizzare al proprio territorio le grandi MNEs con specifico interesse per quelle americane.
All’indomani della revisione, nel 2004, del Protocollo della convenzione contro le doppie imposizioni con gli Stati Uniti - che avevano preteso l’introduzione (nell’art. 24) di una specifica clausola di contrasto delle entità ibride – l’Olanda adottò, con il decreto 6 luglio 2005 del Segretario delle Finanze, una delle strutture ibride più efficaci, la c.d. Dutch CV/BV structure studiata in modo selettivo a beneficio dei grandi gruppi americani: uno schema in cui una società ‘ibrida inversa’ di diritto olandese (la CV, considerata trasparente in Olanda e opaca in USA per elezione de soci ivi residenti[35]) è affiancata da una holding passiva (sempre olandese) che detiene le partecipazioni di controllo nelle filiali del gruppo presenti in vari Paesi esteri (esclusi gli USA) e che funziona come una pass through entity: con l’effetto, in sintesi, che i profitti, interessi e royalty drenati a carico delle filiali estere del gruppo - dopo essere transitati attraverso la BV – affluiscono alla CV[36] senza venire tassati - in ragione del mismatch qualificatorio –né in Olanda né negli USA.
Questo schema - che utilizza l’’ibrida inversa’ per attrarre in Olanda profitti esteri che, liberi da imposte, sono pronti per essere da qui direttamente reinvestiti in altri Paesi del mondo evitando il rimpatrio presso la capogruppo USA - è completato dal massiccio utilizzo di altri schemi e strutture ibride in cui è utilizzata in modo massiccio, sempre in rapporto alle MNEs USA, la figura della c.d. disregarded entity che, al contrario, è una società ‘ibrida’ (non inversa) che funge da polo di attrazione di elementi di reddito che, dedotti presso le filiali estere, non sono tassabili in alcuna giurisdizione[37].
Non solo. Con un altro decreto del Segretario delle finanze olandese fu apertamente consentito anche l’utilizzo di strumenti finanziari ibridi: i c.d. Hybrid Financing via Dutch SPEs - per attrarre gli investitori in danno dei Paesi della target/emittente - consentirono di trattare come dividendi esenti da imposte presso il detentore le remunerazioni di uno strumento finanziario che invece generano per l’emittente interessi passivi deducibili. Un modo di interpretare il proprio ruolo diametralmente opposto a quello del nostro Paese che, appena due anni prima, nel contesto della riforma dell’imposta societaria del 2004 aveva al contrario previsto – per non favorire l’elusione transfrontaliera – che non potesse essere riconosciuta l’esenzione dei dividendi in tutti i casi in cui il relativo strumento finanziario avesse permesso al soggetto estero emittente di dedurre interessi passivi.
In definitiva, l’utilizzo di schemi altamente sofisticati, che combinano i regimi speciali delle varie tipologie di SPEs con la natura ‘ibrida’ di enti e strumenti finanziari e/o il formalismo dei prezzi di trasferimento infragruppo, ha consentito ad alcuni Paesi membri come l’Olanda – che in termini generali sono considerati a fiscalità ordinaria e non paradisi - di proporsi non solo come canale di ‘transito’ verso giurisdizioni paradisiache, ma anche come porto sicuro di ‘approdo’ in cui ricoverare grandi masse di profitti distolti o di interessi e royalty ‘erosi’ dalle basi imponibili delle consociate estere delle MNEs, mantenendoli al riparo dalle imposte altrui. Nel corso degli ultimi vent’anni, l’Olanda (ma lo stesso può dirsi del Lussemburgo) è andata affinando il proprio status di giurisdizione ‘sponda’ e, nel contempo, ha subito una mutazione, riuscendo a proporsi anche come Paese di ‘approdo’ finale di profitti esteri cui viene a vario titolo riservata la non imponibilità: due ruoli, questi, che sono ben rappresentati proprio dalle figure dell’entità ‘ibrida’ (per quanto riguarda il ‘transito’) e dell’entità ‘ibrida inversa’ (per quanto riguarda la ‘sponda’):[38] l’importante è riuscire a creare situazioni ‘asimmetriche’ (che sembrino quasi casuali e (in)volontarie) in grado di determinare un differenziale di trattamento fiscale tra la giurisdizione della target e la giurisdizione (quand’anche di pari livello impositivo) di destinazione dei flussi e dei profitti[39]. Dove l’intrinseca selettività del sistema resti riservata (quasi nascosta nelle caratteristiche peculiari degli strumenti legali messi a disposizione); senza manifestarsi apertamente né tradursi in espliciti regimi di favore per grandi gruppi d’imprese estere.
Conclusioni
Siamo, oggi, ad un momento di svolta nello scenario internazionale, dopo i lavori del BEPS, la riforma Trump del 2017 (che molto ha inciso sulle strategie elusive delle MNEs USA che avevano come interfaccia privilegiato proprio l’Olanda) e i lavori tuttora in corso presso l’Inclusive Framework on BEPS cui contribuiscono ben 137 Paesi del mondo. Uno scenario che, all’interno dell’Unione, è stato contrassegnato dalla progressiva entrata in vigore delle direttive di contrasto dell’elusione ATAD1 e ATAD2 (quest’ultima, contenente in particolare proprio le regole di neutralizzazione dei disallineamenti da strumenti, entità e stabili organizzazioni ibridi); nonché delle direttive sulla trasparenza DAC1-DAC6. Un pacchetto di direttive molto complesso che anche l’Olanda ha già introdotto nel proprio ordinamento procedendo a modificare diverse norme interne non compatibili, comprese le linee guida amministrative sui ruling.[40]
In via di principio, questi nuovi istituti giuridici già in vigore a livello europeo (e/o in fase di definizione a livello internazionale) sarebbero idonei a contrastare tutte le strategie di ATP e HTC riducendo le asimmetrie tra gli ordinamenti e ampliando le regole di coerenza e coordinamento; ma l’esito di questo complesso processo dipenderà molto dalla capacità della Commissione e del Consiglio dell’Unione e di ciascuno Stato membro di monitorare e controllare le effettive modalità di attuazione dei vari Paesi.
Situazioni di non corretto coordinamento potrebbero, infatti, creare sia nuove opportunità di concorrenza fiscale sleale da parte di alcuni; sia, al contrario, situazioni di ulteriore svantaggio competitivo da parte degli Stati membri che intendessero adottare – in merito alle nuove direttive - criteri interpretativi di maggior rigore e, comunque, non coordinati con i criteri e la prassi degli altri.
E’ comunque prevedibile che l’Olanda continuerà a mantenere la sua fama di Paese di grande appeal per la localizzazione di holding e subholding di gruppo anche solo in ragione della disponibilità della sua vasta industria finanziaria; della flessibilità degli strumenti di governance che è in grado di offrire (compreso il voto multiplo in assemblea per i soci c.d. ‘storici’ accessibile senza troppe condizionalità); dell’efficienza delle sue istituzioni e infrastrutture legali, oltre che dell’expertise di grandi studi di professionisti dedicati.
E potrebbe essere utile appropriarsi dei molti aspetti positivi del ‘sistema Olanda’: la costante attenzione, anche in un’ottica proattiva, alle esigenze delle imprese e in genere del sistema economico e finanziario; prima fra tutte l’esigenza di certezza giuridica che resta (comunque e più ancora del risparmio fiscale) il bene più prezioso che un ordinamento possa offrire a imprese e investitori. Ampliando, in quest’ottica, gli istituti di interlocuzione costante e preventiva (c.d. istituti di adempimento collaborativo, Cooperative Compliance) per metterli a disposizione di una più ampia platea di imprese e rendendo più flessibile l’offerta di ruling preventivi (possibilmente bilaterali o multilaterali): non certo per accordare privilegi ma definire ex ante le regole del ‘gioco’, avuto riguardo alla crescente complessità delle operazioni economiche.
[1] Ad esempio, l’aliquota marginale dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è pari al 51,75 per cento; mentre quella italiana si ferma al 43 per cento.
[2] Definizione utilizzata nel Commission Staff Working Document SWD (2019)297 del 15 luglio 2019, documento di accompagnamento del “Report on Competition Policy 2018” della Commissione UE.
[3] Anti Tax Avoidance Directive 2016/1164/UE (ATAD1), come modificata dalla direttiva 2017/952/UE (ATAD2).
[4] Directive on Administrative Cooperation (DAC) 2011/16/UE, come modificata dalle direttive 2014/107/UE (DAC2); 2015/2376/UE (DAC3); 2016/881/UE(DAC4); 2016/2258/UE (DAC5); 2018/822/UE (DAC6).
[5] Cfr. Commissione UE “Aggressive Tax Planning Indicators Final Report” del 2017.
[6] Per lo stesso periodo 2015, in Germania gli inward FDI ammontavano a 722.826 milioni di dollari e gli outward FDI a 1.264.059 milioni di dollari.
[7] In termini assoluti, il Lussemburgo è il secondo Paese di attrazione degli FDI (inward per 3.005.207 e outward per 3.517.234 milioni di dollari); ma in percentuale rispetto al PIL, il Lussemburgo (con soli 600.000 abitanti) è invece il primo Paese con inward FDI che raggiungono il 5.766,8 per cento del PIL, seguito da Malta (1.732 per cento del PIL), da Cipro (904 per cento del PIL) e, quindi, dall’Olanda (535 per cento del PIL). Per ben comprendere le dimensioni del fenomeno, basti considerare che quel medesimo rapporto (inward FDI/PIL) era pari – nel 2015 - al 27,8 per cento per la Francia, al 23,8 per cento per la Germania e 18,9 per cento per l’Italia.
[8]Cfr. lo studio condotto per il FMI da J.Damgaard, T. Elkjaer e N. Johannesen “Hidden Corners of the Global Economy”, settembre 2019.
[9] Cfr. FMI “Final Report of the task force on Special Purpose Entities BOPCOM 18/03, October 24-26, 2018”.
[10] Dette anche Special Financial Institutions SFIs o empty corporate shells.
[11] Cfr. anche Seo Amsterdam Economics “Balance sheets, income and expenditure of special financial institutions (SFIs), studio commissionato dal Ministero delle Finanze olandese, 2018, in vista del recepomento delle direttive ATAD1 e ATAD2.
[12] Cfr. anche Cfr. lo studio Hidden Corners of the Global Economy di J.Damgaard, T. Elkjaer e N. Johannesen, cit., secondo cui i dati sui FDI annualmente rilevati a livello internazionale non sono rappresentativi della effettiva provenienza e destinazione degli investimenti esteri in quanto si limitano a fotografare i Paesi in cui sono localizzati gli enti che costituiscono la contropartita diretta dei flussi di capitali, senza tuttavia essere in grado di individuare gli effettivi destinatari finali degli investimenti.
[13] Ibidem
[14] Il tema è stato posto all’attenzione del Parlamento Europeo con il Report della Commissione speciale sull’evasione fiscale TAX3 dell’ottobre 2018.
[15]Cfr. la Risoluzione del Parlamento europeo su “I reati finanziari, l’evasione fiscale e l’elusione fiscale” del 26 marzo 2019 in cui si sottolinea che l’elevata percentuale di FDI in rapporto al PIL si giustifica per il fatto che gli FDI sono in gran parte investimenti fantasma, detenute tramite Special Purpose Entities (SPEs) che “spesso hanno la funzione di sfruttare le lacune esistenti” (par. 135), aggiungendo che “indicatori economici quali un livello insolitamente alto di FDI e di FDI detenuti da società a destinazione specifica sono indicatori di una pianificazione fiscale aggressiva”. Sul punto, cfr. anche il report della Commissione Aggressive Tax Plannig Indicators, cit.
[16]Cfr Seo Amsterdam Economics “Balance sheets, income and expenditure of special financial institutions (SFIs), studio commissionato dal Ministero delle Finanze, 2018, cit. Anche I dati dell’ultimo report di Tax Justice Nework “The axis of tax avoidance” del 28 aprile u.s. confermano questo trend; rivelando che ogni dollaro di imposta sui profitti delle multinazionali USA che i quattro Paesi che costituiscono l“asse dell’elusione fiscale” (e cioè Regno Unito, Svizzera, Olanda e Lussemburgo) riescono a ‘raccogliere’ con il profit shifting, si traduce in una perdita di ben sette dollari per gli altri Paesi membri. I Paesi che più subiscono gli effetti negativi di queste strategie sarebbero Francia, Germania, Italia, Belgio e Spagna. Nell’indice dei paradisi fiscali, pubblicato di recente da Tax Justice Network “Corporate Tax Haven Index”, l’Olanda si colloca al quarto posto nel mondo (dopo Isole Vergini, Bermuda e Cayman) seguita, in Europa, dal Lussemburgo che si colloca al sesto posto.
[17] Del restante ammontare, poco più di 2.249 miliardi sono affluiti in Svizzera e soltanto 1.000 miliardi in tutti gli altri ‘paradisi’ del mondo (Bermuda, Hong Kong, Singapore etc ), cfr. lo studio “The Missing Profits of Nations” pubblicato a settembre 2019 da Thomas Torslov, Ludvig Wier e Gabriel Zucman Tra i Paesi più colpiti al mondo da queste strategie di profit shifting, vi sarebbero i grandi Paesi UE: Germania 29%, Francia 24%, UK 21 % Italia 19%; mentre a livello extra UE i più colpiti sarebbero USA 17% e Brasile 10%.
[18] Cfr. Commissione C(2012)8806 del 6 dicembre 2012
[19] Dati della classifica della rivista “Fortune”, Report “Offshore Shell Games 2016. The Use of Offshore Tax Havens by Fortume 500 Companies”.
[20] Per meglio valorizzare il loro ruolo ‘triangolare’, i Paesi Bassi si sono dotati nel tempo anche di regimi domestici che, a determinate condizioni, esentano da ogni prelievo anche i flussi di dividendi, interessi e royalty diretti verso giurisdizioni con le quali non sia stata stipulata alcuna convenzione contro le doppie imposizioni.
[21] Direttiva 90/436/CEE poi rifusa nella direttiva 2011/96/UE.
[22] Direttiva 2003/49/CE.
[23] Problemi di doppia imposizione giuridica persistono in tutti i casi in cui un’impresa operi in un Paese terzo con cui il proprio Paese di residenza non ha stipulato una convenzione (da qui l’importanza di disporre di convenzioni con tutti i Paesi). Ma gli stessi problemi possono rimanere in buona parte anche in presenza di convenzioni perché le ritenute in uscita che si applicano sui flussi lordi (ad esempio su interessi e royalty attivi) non riescono ad essere ‘recuperate’ (soprattutto quando i tassi sono molto alti) con il riconoscimento del foreign tax credit a fronte delle imposte dovute nello Stato di residenza.
[24] Mediamente più del 70 per cento delle operazioni di un’entità locale intercorrono tra consociate.
[25] In termini generali, questi processi di ristrutturazione sono motivati, sul piano aziendale, da effettive esigenze edi specializzazione delle funzioni delle entità del gruppo per competere sui mercati globali. Tuttavia, il formalismo delle regole di determinazione dei prezzi infragruppo prima della revisione delle Guidelines dell’OCSE successiva ai lavori del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) ha prodotto, al riguardo, forti effetti distorsivi sul piano della ripartizione della potestà impositiva, per due motivi fondamentali. In primo luogo perché molto spesso l’attribuzione dei rischi al c.d. Principal (collocato in un paradiso o in una giurisdizione disposta a concedere ruling di favore) era (è) solo formale; basata semplicemente su previsioni contrattuali intercompany appositamente convenute, senza reale corrispondenza con l’effettiva capacità del predetto Principal di sostenere i rischi o di svolgere le funzioni ad esso attribuite: rischi e funzioni che, quindi, continuano in effetti a gravare in larga parte sulle società locali o su altre società specializzate in giurisdizioni non privilegiate. In secondo luogo, perché i moderni processi di estrema specializzazione delle funzioni – in cui ciascuna entità concorre alla creazione di una ricchezza comune (quella del gruppo nel suo complesso) - richiederebbero di ripartire tra tutte le società coinvolte anche gli eventuali extraprofitti che derivano dalla condivisione di queste attività, sulla base di criteri che, ovviamente, tengano conto dell’effettivo apporto di ciascuna. Già oggi, con le nuove Guidelines OCSE sui prezzi di trasferimento, è possibile ricorrere più facilmente a metodi multilaterali di ripartizione dei profitti (profit split); ma, più in generale, il tema è oggetto degli attuali lavori presso l’Inclusive Framework OCSE che entro l’anno dovrebbero portare ad una profonda revisione degli standards internazionali di ripartizione dei profitti delle multinazionali più grandi a forte vocazione digitale. Resta il fatto che, finora (fino a quando non saranno effettivamente implementati i nuovi criteri delle Guidelines OCSE), gli extraprofitti potevano essere attribuiti interamente ai Principal, alle Royalty Company e/o alle Ultimate Company opportunamente situate nei paradisi o in altre giurisdizioni disposte a concedere - attraverso ruling riservati di estremo favore - la non imponibilità per la gran parte di questi profitti che, in definitiva, non appartenevano al proprio ordinamento; essendo stati distolti dalle società operative del gruppo dei vari Paesi remunerate ai fini fiscali solo con piccoli margini rispetto ai costi sostenuti. Anzi. Molto spesso il riconoscimento del regime di non imponibilità era in vario modo giustificato proprio in ragione della loro natura di redditi ‘apolidi’ e comunque estranei alla giurisdizione in cui si erano ‘rifugiati’.
[26] Dai dati dello stesso Ministero delle finanze dei Paesi Bassi ben il 60 per cento delle royalty che transitano dall’Olanda affluiscono (senza applicazione di ritenute in uscita) nel noto paradiso fiscale delle Bermuda.
[27] Come detto in una precedente nota, il tema è di estrema attualità. Criteri nuovi di natura sostanzialista sono già stati introdotti nella revisione delle Guidelines OCSE sui prezzi di trasferimento. Inoltre, per i grandi gruppi altamente digitalizzati, il tema è oggetto di specifico approfondimento presso l’Inclusive Framework on BEPS.
[28] Cfr., a riguardo, anche il report della Commissione europea “Aggressive Tax Planning Indicators”, cit; in cui si evidenzia che in ogni ordinamento il livello di permeabilità di uno Stato membro all’ATP oppure il suo livello di aggressività può essere misurato osservando la prevalenza sul territorio nazionale di una di queste tre tipologie di entità i) la target entity (l’entità del gruppo la cui b.i. è ridotta); ii) la lower tax entity (l’entità del gruppo la cui b.i. è incrementata e tassata ad un tasso ridotto); iii) la conduit entity (l’entità del gruppo, utilizzata ai fini dell’ATP, ma la cui base imponibile non è interessata in modo significativo).
[29] Cfr., inter alias, i noti casi delle contestazioni mosse dalla DG Concorrenza a carico di molte società destinatarie di ruling riservati da parte di vari Stati membri: tra cui i casi di Starbucks, Apple, Engie, Ikea, Fiat Finance etc. A seconda dei casi, questi extraprofitti (‘compensati’ con addebiti di grandi masse di royalty passive) uscivano dalle giurisdizioni conduit in direzione di noti paradisi fiscali; ma spesso rimanevano privi di tassazione presso la stessa società olandese (o altra società residente in altri Stati membri) perché considerati – come da accordo con le Amministrazioni interessate - profitti riconducibili a supposte sinergie di gruppo sovranazionali non di pertinenza di alcuna giurisdizione (‘apolidi’, appunto) oppure appartenenti ad entità ‘apolidi’ o ibride, di cui oltre si dirà.
[30] L’uso di ruling individuali e di preferential tax schemes è considerato la principale causa di ATP anche nel Commission Staff Working Document SWD (2019)297 del 15 luglio 2018 che accompagna il Report on Competition Policy 2018 della Commissione, cit.. Nel documento si sottolinea che l’ATP all’interno della UE produce gravi effetti per la competitività del sistema: i)attribuisce vantaggi fiscali soltanto ad alcune società che distorcono la concorrenza; ii)crea problemi di equità sociale perché le imposte non pagate dalle MNEs comportano normalmente il trasferimento dell’onere a carico dei redditi meno mobili e del lavoro; iii) favorisce la delocalizzazione e rappresenta una minaccia per la crescita del mercato interno se qualche Stato membro dovesse offrire exit points per i profitti delle MNEs in cambio della creazione di posti di lavoro sul proprio territorio e di un piccolo ammontare di imposte.
[31] Secondo la definizione del Fondo monetario Internazionale le SPEs sono veicoli i)sono privi di dipendenti, di presenza fisica e di attività produttiva (o sono dotati di un massimo di 5 dipendenti e di una presenza fisica o produttiva limitate); ii)sono controllati, direttamente o indirettamente, da soggetti non residenti; iii)effettuano in modo pressoché esclusivo operazioni con soggetti non residenti del medesimo gruppo e iv)presentano bilanci in larga parte costituiti da attività e passività transfrontaliere. Cfr.FMI in “Final Report of the task force on Special Purpose Entities BOPCOM 18/03, October 24-26, 2018”. Sul tema, cfr. anche Commission Staff Working Document on Foreign Direct Investment the UE SWD(2019) 108 del 13 marzo 2019 che accompagna la Comunicazione della Commissione “Welcoming FDI while Protecting Essential Interest” del 13/9/2017
[32] Il Dutch sandwich with Double Irish è uno schema di triangolazione fiscale tra due società irlandesi e una società ‘vuota’ (shell company) olandese. La prima società irlandese è titolare (fuori dagli USA) dei diritti licenza degli Intangibles ed ha una stabile organizzazione in un paradiso (ad esempio, le Bermuda) presso la quale ha allocato la proprietà economica dei Intangibles. La società olandese (che per configurazione giuridica è una società ‘scudo’ che non può svolgere alcuna attività né può avere dipendenti) prende in sub licenza l’IP dalla stabile organizzazione della prima irlandese e, a sua volta, lo concede in sub licenza ad un’altra società irlandese che opera sul mercato e soprattutto fattura dall’Irlanda le prestazioni del gruppo nei vari Paesi. Questa seconda irlandese deduce dai propri ricavi enormi ammontari di royalty (dovute alla società olandese) che ne riducono la base imponibile ad un piccolo margine. La società olandese include nel proprio reddito le royalty attive che però vengono compensate con le royalty passive da essa dovute a favore della stabile organizzazione della prima irlandese situata alle Bermuda, dove le royalty non sono tassate: né sono tassate presso la casa madre in Irlanda che, operando in regime di branch exemption, non assoggetta a tassazione i redditi della propria stabile organizzazione. Dal 2015, in conseguenza dei lavori del BEPS, questo schema non è più utilizzabile da nuove società, mentre le società che già lo utilizzavano hanno ancora tempo per tutto il 2020 per riorganizzarsi in cambio di nuovi incentivi su profitti da brevetti. Esistono oltre che varie varianti di questo schema, anche schemi ingegnerizzati in modo diverso ma che parimenti comportano – come ad esempio nel caso di IKEA - che le royalty pagate da tutti i negozi del mondo che operano in franchising affluiscano, non tassate, attraverso la holding olandese nel paradiso delle Antille Olandesi.
[33] Le entità ‘ibride’ sono entità che nel Paese in cui sono situate sono considerate come autonomi soggetti passivi d’imposta (società ‘opache’) idonee a dedurre interessi passivi o royalty; mentre si qualificano come soggetti ‘trasparenti’ nel Paese dell’investitore (creditore) che non ‘vede’ (e non tassa) i flussi di interessi e royalty da esse provenienti: e ciò in ragione del fatto che, appunto, esse costituiscono, secondo l’ottica del Paese dell’investitore, niente altro che una sorta di diramazione estera di un unico soggetto (una mera ‘propaggine’ dell’investitore) i cui rapporti meramente interni sono ritenuti irrilevanti ai fini fiscali. Da notare che si tratta di regimi di ‘trasparenza fiscale’ in senso ampio che non prevedono - come invece è previsto in Italia - che i redditi delle società trasparenti, che non possono essere tassati presso di esse, siano immediatamente assoggettati a tassazione presso i soci, compresi i soci non residenti.
[34] Le entità ‘ibride inverse’, al contrario, sono considerate fiscalmente ‘trasparenti’ nel Paese in cui sono localizzate e ‘opache’nel Paese di residenza dell’investitore. Possono quindi fungere da destinatarie di flussi attivi di royalty o di interessi provenienti da altre società del mondo: flussi attivi che non sono assoggettati a tassazione né nel Paese in cui l’ibrida inversa è situata (perché la considera trasparente e si aspetta che i suoi redditi siano tassati presso l’investitore), né nel Paese di residenza dell’investitore (che la considera ‘opaca’ e ritiene che i suoi redditi siano già stati tassati nel Paese in cui è localizzata).
[35] La natura opaca della società per l’ordinamento USA deriva da una scelta consapevole effettuata dai soci: con la famosa opzione chek the box una società controllante può scegliere di considerata una società partecipata ala 100 per cento come una società ‘opaca’ o come una società ‘trasparente’ (come se fosse una stabile organizzazione).
[36] In via generale, l’olandese CV (Commanditaire Vennootschap) è una società equiparabile ad una società in accomandita semplice con partners esteri, è considerata trasparente in Olanda (che quindi non applica imposte né sulla società né sui soci esteri) ed è invece considerata opaca nella giurisdizione di residenza dei soci che – nel presupposto che essa sia assoggettata ad imposta societaria in Olanda (Paese d’insediamento) – non applicano imposte sull’utile societario neppure sui partners (che eventualmente saranno tassati nel momento della distribuzione dei dividendi, magari in regime di participation exemption, se e quando i dividendi dovessero essere distribuiti).
[37] La disregarded entity, è una società estera completamente controllata da una società USA che, per effetto dell’opzione chek the box, è considerata trasparentie negli USA, mentre è fiscalmente opaca nel Paese in cui è localizzata. La gran parte degli investimenti delle MNEs USA in Olanda transita tramite le disregarded entity, la cui funzione è attrarre elementi di reddito dedotti da società target estere. In Olanda, la disregarded compensa gli interessi attivi percepiti con gli interessi passivi dovuti alla società madre USA (che ha erogato il finanziamento) e azzera in tal modo la propria base imponibile. La società madre USA, tuttavia, considera gli interessi ad essa corrisposti dalla disregarded come semplici movimenti interni, irrilevanti ai fini fiscali (la disregarded trasparente, nelle sua ottica, è infatti considerata una propria diramazione amministrativa, al pari di una stabile organizzazione). Di conseguenza la madre USA non include gli interessi nella propria base imponibile; né è tenuta ad imputarseli in base alle regole CFC (Controlled Foreign Company) perché la relativa disciplina USA esclude dal proprio perimetro applicativo i redditi delle disregarded.
[38] L’entità ‘ibrida’è il simbolo della ‘sponda di transito’ in quanto nella giurisdizione in cui è situata deduce costi che la giurisdizione estera del beneficiario/investitore non tassa perché considerandola trasparente considera i flussi come meri movimenti interni’. L’entità ‘ibrida inversa’ è, invece, il simbolo dell’approdo’ esente, essendo utilizzata per ricevere elementi positivi di reddito che non vengono tassati né nella giurisdizione in cui è localizzata (che la considera trasparente), né nella giurisdizione dei soci che la considera opaca.
[39] In certi casi, l’asimmetria è appositamente creata all’interno dello stesso Paese con costruzioni di ibridi ‘interni’, come nel caso di uno strumento finanziario che è considerato prestito per una entità (con deduzione interessi passivi) e equity per un’altra entità della medesima giurisdizione (che, invece, può considerare la remunerazione dividendi esenti). E’ il caso, ad esempio, dei ruling concessi a due società consociate del gruppo Engie in Lussemburgo (oggetto di contestazione da parte della DG Concorrenza per aiuti di Stato), lo stesso strumento finanziario ibrido era considerato nello stesso Paese (in base ad un accordo segreto di ruling con l’Amministrazione finanziaria del Lussemburgo) sia come strumento di debito idoneo a generare interessi passivi deducibili presso la società operativa locale e, nel contempo, come strumento partecipativo idoneo a qualificare come dividendi esenti i corrispondenti flussi attivi presso la consociata parimenti residente in Lussemburgo. In questo caso, la asimmetria era stata creata ad hoc all’interno dello stesso Paese.
[40] Cfr. Q&A Guidance on revised Dutch tax ruling practice del 25 febbraio 2020.
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