Autonomia differenziata: Convegno Nens a Roma il 6 febbraio, diretta anche su canale YouTube Nens

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Gennaio 2023

Presentazione

La riforma del Titolo V del 2001 introdusse nell’art. 116 della Costituzione la possibilità di riconoscere alle regioni a statuto ordinario “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nelle materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni (per le quali, come nel caso della sanità, già oggi spetta allo Stato solo la determinazione dei principi fondamentali) e in tre materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Una bomba ad orologeria In un paese caratterizzato da forti disuguaglianze territoriali e in un ordinamento in cui da sempre esistono regioni a statuto speciale alle quali è riservato un trattamento di favore nell’attribuzione delle risorse finanziarie.

Le richieste di autonomia differenziata avanzate da tre regioni e, soprattutto, il modo in cui esse vengono trattate (dagli ultimi cinque governi) – trattative bilaterali tra Governo e Regioni in ordine sparso - rischiano di provocare, nel giro di pochi anni, un radicale cambiamento dell’intero settore pubblico senza che nessuno se ne accorga, un’esplosione silenziata per continuare con la metafora. Le questioni in gioco sono di due tipi: distributivo (le risorse disponibili alle varie aree del paese per finanziare i servizi pubblici) e allocativo (l’efficienza dei sistemi pubblici della sanità, dell’istruzione, ecc.).

La questione distributiva: il finanziamento

Per avere un’idea del volume di risorse in gioco, tra le materie interessate quella di gran lunga più rilevante è l’istruzione (in particolare la gestione del personale), con una spesa statale nel 2017 di 27,5 miliardi nel complesso delle regioni a statuto ordinario di cui 9,1 miliardi nelle tre regioni in questione. Una seconda materia con implicazioni finanziarie importanti è quella del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, che comporterebbe il passaggio alla responsabilità regionale dei trasferimenti agli enti locali oggi veicolati dal bilancio dello Stato. La spesa statale regionalizzata per trasferimenti correnti a comuni e province nel complesso delle regioni a statuto ordinario è stimata in 11,4 miliardi, di cui 3,5 nelle tre Regioni richiedenti. Tra le altre materie potenzialmente coinvolte, almeno in parte, nel processo vi sono anche il trasporto locale (9 miliardi, di cui 2,8 nelle tre regioni e l’istruzione universitaria (6,2 miliardi di cui 2,3 nelle tre regioni).

Secondo le bozze di intesa ufficiali, pubblicate a febbraio 2019, le funzioni attribuite dovrebbero essere finanziate con compartecipazioni (e/o riserve di aliquote su tributi erariali). L’aliquota della compartecipazione (ovvero la quota del gettito delle imposte statali raccolte nel territorio che diverrebbe di “proprietà” della regione) sarebbe fissata, una volta per tutte, a un livello tale da garantire un ammontare di risorse pari alla spesa statale attuale. L’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio regionale dei tributi compartecipati rispetto ai fabbisogni di spesa sarà di competenza della regione. In altre parole, se nel tempo la dinamica dei gettiti sarà maggiore di quella dei fabbisogni, il residuo positivo resterà a disposizione della regione. Al contrario, se il residuo fosse negativo, si prevede un meccanismo di revisione del finanziamento. La criticità deriva dalla divergenza tra l’andamento nel tempo del gettito dei tributi statali e la spesa da finanziare. Per fare un esempio, in quattro anni, dal 2013 al 2017, la crescita cumulata del gettito IVA in Lombardia è stata superiore di dieci punti alla crescita della spesa statale per l’istruzione nella stessa regione. Dieci punti che dovranno essere compensati o aumentando il disavanzo del bilancio statale o aumentando imposte diverse da quelle compartecipate ovvero diminuendo spese, in particolare quelle nelle altre regioni.

In sintesi, il modello di finanziamento prefigurato nelle bozze di intesa implica una separazione della finanza pubblica delle regioni ad autonomia differenziata dal resto del Paese. E’ esattamente il modello di finanziamento di cui godono oggi le regioni a statuto speciale, basato appunto su aliquote di compartecipazione fisse (che arrivano al cento per cento) ai tributi erariali. Un modello ovviamente non sostenibile per il complesso del paese.

La richiesta delle tre regioni (accettata nelle bozze di intesa) di finanziare le nuove funzioni attribuite con compartecipazioni ad aliquota fissa apre la strada a una progressiva differenziazione della distribuzione delle risorse a favore delle aree più ricche del paese. Le politiche pubbliche coinvolte perderebbero così il loro carattere nazionale e si dovrebbe accettare il principio per cui l’area di residenza è un fattore rilevante per differenziare il trattamento dei cittadini.

La questione allocativa: l’efficienza del settore pubblico

La questione allocativa riguarda la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, con l’obiettivo di avere nelle grandi aree dell’intervento pubblico sistemi ben funzionanti. Ad esempio, nella sanità l’esperienza della pandemia ha messo in evidenza un grave difetto di coordinamento tra stato e regioni e, inoltre, dimostrato che non tutti i sistemi regionali, anche tra quelli fino ad allora ritenuti all’avanguardia, erano stati disegnati nel modo migliore. Sarebbe importante individuare i punti deboli del disegno attuale nelle varie aree (la medicina territoriale, il rapporto tra pubblico e privato, le specializzazioni mediche) e trovare correttivi validi per tutte le regioni. Di questo non si discute ma come se nulla fosse accaduto si procede in ordine sparso, all’insegna del “fate voi”. Anzi, si pensa di ripetere l’esperienza con l’istruzione e, di fatto, con tutte le materie.

Le tre Regioni hanno richiesto maggiore autonomia per un grande numero di materie: 23 il Veneto, 20 la Lombardia, 16 l’Emilia-Romagna. Unica giustificazione della richiesta è l’affermazione apodittica (in tutte e tre le bozze) secondo cui “l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della Regione e immediatamente funzionali alla sua crescita e al suo sviluppo”. Cosa giustifica ulteriori forme di autonomia, ad esempio, nella materia delle “grandi reti nazionali di trasporto e di navigazione” o nella “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”? Le motivazioni per una differenziazione in queste aree sono sufficientemente solide da controbilanciare i costi in termini di frammentazione della gestione di specifiche attività pubbliche e della fornitura di particolari servizi ovvero, detto in altre parole, delle ricadute sul funzionamento dello Stato e delle altre Regioni? Domande senza risposta.

Compaiono richieste su una serie di funzioni per le quali manca del tutto il carattere di “bene pubblico locale” (vale a dire, con effetti limitati a un territorio circoscritto) che ne giustificherebbe l’attribuzione e quindi la differenziazione tra Regioni: solo per fare alcuni esempi, l’acquisizione al demanio regionale della rete ferroviaria e autostradale e l’approvazione delle infrastrutture strategiche anche di competenza statale; competenze statali in materia di immigrazione; il sostegno alla ricerca spaziale e aerospaziale; la definizione dell’equivalenza terapeutica tra medicinali. Ma soprattutto sono da considerare a un livello sistemico le richieste molto ampie, con effetti potenziali sull’unità culturale, valoriale, giuridica ed economica della Repubblica, in settori quali l’istruzione (dai programmi al personale e alla definizione dei curricula), l’università (con la richiesta di un pervasivo ruolo di coordinamento), i beni culturali (con il trasferimento delle funzioni esercitate dalle Soprintendenze), la finanza locale (con l’allocazione delle funzioni dei comuni, incluse quelle fondamentali della gestione della rete idrica, della Sanità, dei trasporti, dell’assistenza alle fasce sociali più deboli). Peraltro, in assenza di una definizione dei criteri di accesso al regionalismo differenziato, il processo è destinato ad estendersi a tutte le Regioni. Rischiamo insomma di ritrovarci, alla fine, con venti regioni a statuto speciale, dove agli attuali venti sistemi sanitari si affiancheranno venti sistemi scolastici e così via.

Il processo di approvazione

Secondo questo governo (come i precedenti), ogni Regione dovrebbe sottoscrivere uno schema di intesa con il Governo che, dopo un parere parlamentare, verrebbe approvato dal Consiglio dei ministri (con la partecipazione del Presidente della Regione) nella forma di un disegno di legge “di mera approvazione dell’intesa” (ovvero non emendabile) sul quale le Camere dovrebbero deliberare a maggioranza assoluta. L’approccio è quello proposto nelle intese preliminari sottoscritte dal governo Gentiloni: approvazione seguendo il procedimento “ormai consolidato” per le “intese tra lo Stato e le confessioni religiose”. E’ un modo di procedere inaccettabile.

E’ necessario, invece, prima ancora di discutere di trasferimenti di competenze, completare il disegno dell’art. 117, con l’esercizio effettivo della competenza esclusiva dello Stato nella determinazione dei principi fondamentali per le singole materie e nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni. Riguardo all’attuazione dell’art. 116 è fondamentale una vera legge quadro di interpretazione del contenuto dello stesso articolo,  che circoscriva l’ambito delle materie trasferibili (per dirne una, escludendo quelle, ad esempio la distribuzione nazionale dell’energia, che i progetti di revisione costituzionale del centrodestra del 2005 e del centrosinistra del 2016 concordavano nel voler trasferire dalla competenza legislativa concorrente a quella esclusiva dello Stato), chiarisca la natura delle motivazioni accettabili a favore della differenziazione, individui gli ambiti per i quali si può semplicemente procedere con l’attribuzione di competenze amministrative senza toccare quelle legislative e che, infine, approfondisca il tema del finanziamento.

 

Comments (1)

Giuliano Laccetti (non verificato)

No alla secessione dei ricchi. E' ormai chiaro a molti che l'idea che um Nord ricco e competitivo trascini l'Itlaia verso sviluppo e rinnovamento, è destituita di fondamento: negli y+ultimi anni le regioni ricche e forti del Nord non reggono il passo con il resto dell'Europa. Solo una seconda locomotiva. il Mezzogiorno, che diventi tale con i soldi e le politiche del recovery Fund e del nostro Pnrr, potrebbe riuscire a pilotare l'Italia tutta, insieme con il Nord, verso migliori traguardi. Il divario Sud-Nord, in termini di servizi, occupazione, welfare, istruzione, infrastrutture, ecc ..., DEVE ridursi fino ad annullarsi: chi dice evitiamo che il gap si allarghi è un crièptoleghista. Punto.
A Roma, lunedi 6, alla sala Igea, ci sarò.

February 2, 2023 at 5:44 pm

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