Progressività per combattere la crisi

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Dicembre 2016

Alla recente drammatica crisi del sistema finanziario sta inesorabilmente facendo seguito una crisi delle economie reali che si annuncia lunga e profonda. Tutte le economie avanzate stanno entrando o sono gia’ entrate in recessione e il problema principale della politica economica e’ oggi come affrontare questa crisi. Gli strumenti di politica monetaria appaiono ormai inadeguati, se non addirittura impotenti: in un clima di pesante sfiducia le sforbiciate ai tassi d’interesse stentano a tradursi in maggiore disponibilita’ di credito e la liquidita’ resta pertanto complessivamente scarsa. Ci avviciniamo rapidamente ad una situazione di trappola della liquidita’ e non e’ azzardato prevedere per il 2009 tassi d’interesse nominali prossimi allo zero sia in Europa che in Nord-America. Gli occhi sono pertanto puntati sulle politiche fiscali. Il consenso generale e’ che occorrono politiche anticicliche di stimolo alla domanda aggregata e che solo una espansione fiscale di entita’ notevole puo’ sperare di trarci fuori dalla recessione prima che questa si trasformi in una vera e propria depressione.

 

Questa crisi ha anche nettamente cambiato il clima politico e l’approccio alla politica economica, riabilitando l’interventismo economico degli stati, ponendo nuova enfasi sull’importanza della domanda aggregata, spingendoci molto lontano dalle tesi della supply side economics. Negli Stati Uniti, Obama vince le elezioni puntando sulla maggiore credibilita’ del Partito Democratico come partito della spesa pubblica, impegnandosi ad implementare una politica di stimolo fiscale e una serie di riforme che hanno spinto molti commentatori a parlare addirittura di un nuovo New Deal. L’Unione Europea mette temporaneamente da parte il patto di stabilita’ e fa capire che uno sforamento del 3% nel rapporto deficit/PIL e’, in questa fase, non solo accettabile ma addirittura desiderabile. La Commissione raccomanda interventi coordinati da parte degli stati membri con manovre espansive pari all’1,5% del PIL di ciascun paese. Il Regno Unito e la Francia hanno appena varato manovre espansive del valore, rispettivamente, di 21 miliardi di sterline e 26 miliardi di euro.

 

In tale contesto internazionale, se e’ vero che le economie dei paesi avanzati sono tutte in affanno, e’ anche vero che la situazione dell’Italia e’ la piu’ difficile. Le nostre finanze pubbliche, saccheggiate dai governi degli anni ’80 e non aiutate dalla finanza creativa tremontiana (e da recenti sperperi quali l’operazione Alitalia e l’abolizione dell’ICI), oggi rappresentano un fardello pesante. Mentre, per esempio, il rapporto fra debito e PIL del Regno Unito e’ appena sopra il 40%, il nostro e’ all’incirca del 106%. In questi ultimi mesi solo l’euro ha salvato l’Italia e i risparmi degli italiani dalla bancarotta. Cio’ andrebbe ricordato a chi negli ultimi anni non ha perso occasione per criticare la moneta unica. Nonostante l’euro, tuttavia, lo spread fra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi si sta allargando notevolmente, a riflettere la maggiore rischiosita’ del nostro debito. Bisogna dunque stare attenti ai conti pubblici. Apparentemente siamo fra l’incudine e il martello, e Tremonti cerca di giustificare la sua inattivita’ con l’argomento del rigore fiscale, sul quale, per la verita’, in passato si e’ guadagnato ben poca credibilita’. “I soldi non ci sono”, e’ questo il ritornello.

 

In realta’ i soldi non piovono dal cielo neppure in paesi con i conti pubblici piu’ in ordine dei nostri, i quali, nei vari piani di espansione fiscale, non mancano di indicare quali siano i mezzi per coprire le spese e rientrare in equilibrio quando l’emergenza sara’ passata. In altri termini, ad una nuova politica della spesa viene affiancata una nuova politica delle entrate fiscali. Se si da’ un’occhiata ai due paesi che, trenta anni fa, guidarono l’offensiva neoliberista con i governi Thatcher e Reagan, non si puo’ fare a meno di notare che qualcosa di molto importante e nuovo sta accadendo. Anche se il termine non viene ancora usato esplicitamente nel dibattito politico, per la prima volta dagli anni settanta sta aumentando il grado di progressivita’ delle imposte sul reddito. Negli USA Obama promette in campagna elettorale sgravi per i redditi bassi e medi e varie misure volte ad accrescere il carico fiscale dei redditi alti: un aumento delle aliquote sugli ultimi due scaglioni di reddito (rispettivamente dal 33% al 36% e dal 35% al 39.6%), un aumento dell’aliquota massima su dividendi e capital gains dal 15% al 20%, un aumento del 2% dei contributi sociali per redditi oltre i 250.000 dollari. Nel Regno Unito Gordon Brown introduce un’ aliquota d’imposta del 45% per i redditi superiori a 150.000 sterline a partire dal 2011, ossia quando la crisi sara’ verosimilmente dietro le spalle. Anche nel caso di Brown si tratta di una scommessa politica visto che le prossime elezioni si terranno entro il 2010 e ai Conservatori la tassa sui super-ricchi ovviamente non piace. In altri termini, Brown sa benissimo che questa imposta costituira’ uno degli argomenti caldi alle prossime elezioni: ne consegue che, cosi’ come Obama negli USA, probabilmente non teme un dibattito pubblico sull’opportunita’ di aumentare le imposte sul reddito dell’1% piu’ ricco della popolazione.

 

Le ragioni a favore di un aumento della progessivita’ in questa fase del ciclo economico sarebbero particolarmente stringenti nel caso dell’Italia, che dovra’ puntare su manovre con “bilancio in pareggio”, ossia che non aggravino la condizione delle finanze pubbliche. Le ragioni principali sono di carattere puramente economico. Un aumento della progressivita’, a parita’ di gettito, sposta risorse da individui a reddito elevato verso individui a reddito piu’ basso. Questo significa che le risorse vengono spostate verso i cittadini con una piu’ alta propensione al consumo. Una maggiore progressivita’ impositiva provoca pertanto uno stimolo dal lato della domanda aggregata, esattamente quello di cui unanimemente si dice ci sia bisogno in questo momento. La tipica controindicazione ad aliquote marginali elevate e’ che possono introdurre distorsioni, provocando un calo degli incentivi e ponendo dunque un freno alle potenzialita’ dei mercati, un argomento che certamente non va sottovalutato. Questo era anche il leit motiv della cosiddetta reaganomics: aliquote marginali elevate provocano distorsioni e disincentivano l’offerta di lavoro e gli investimenti. E tuttavia va anche detto che l’evidenza empirica sull’entita’ di tali disincentivi resta scarsa, a fronte del grande credito tributatogli da molti economisti. Di certo siamo oggi molto lontani dalle aliquote punitive prevalenti in alcuni paesi negli anni ’70 e dunque il problema delle distorsioni e’ nel complesso meno urgente. Cio’ e’ particolarmente vero durante una recessione, in cui il problema degli incentivi diventa secondario rispetto a quello di stimolare la domanda (come dimostrato, in piccolo, dall’inutilita’ della detassazione degli straordinari).

 

L’argomento sui disincentivi puo’ essere spinto fino ad affermare che la progressivita’ danneggia esattamente le fasce di reddito meno abbienti. In altri termini la creazione di reddito da parte degli individui piu’ produttivi, che risulterebbe piu’ alta se non ostacolata da meccanismi redistributivi, dovrebbe innestare un processo di trickle-down, con ricadute positive su tutta la popolazione. Anche su questo non disponiamo di un riscontro fattuale a quanto realmente accaduto. Sappiamo pero’ con certezza che negli ultimi venti anni le disuguaglianze di reddito sono aumentate in maniera considerevole in tutti i paesi sviluppati. Dal recente rapporto dell’OCSE “Growing Unequal?” risulta ad esempio che la media dell’indice di disuguaglianza di Gini dei redditi disponibili nei paesi OCSE e’ aumentata di circa il 10% fra il 1985 e il 2005 e che la quota di reddito dell’1% piu’ ricco della popolazione e’ tornata ai livelli degli anni ’30 negli Stati Uniti e ai livelli degli anni ’40 nel Regno Unito. Nessuna meraviglia, dunque, se il Partito Democratico negli USA e il Partito Laburista nel Regno Unito sono tornati a porre l’accento sulla necessita’ di politiche di redistribuzione del reddito piu’ incisive. E vale dunque la pena notare che, secondo lo stesso rapporto, l’Italia ha un livello di disuguaglianza dei redditi fra i piu’ elevati tra i paesi sviluppati ed e’ uno dei paesi in cui la disuguaglianza e’ cresciuta maggiormente negli ultimi venti anni. Un serio dibattito sulla opportunità o meno di politiche di redistribuzione più efficaci è però ancora pressoché assente nel nostro paese.

 

Non bisogna infine trascurare l’importanza anche simbolica che in questo momento puo’ essere attribuito ad un aumento della progressivita’. In una fase drammatica per l’economia e di grande difficolta’ per fasce consistenti di popolazione, una tassa sui redditi molto elevati potrebbe dare nuovo slancio (o, meglio, una boccata d’ossigeno) al fragile contratto sociale fra gli italiani: ci indicherebbe, fra l’altro, che l’Italia non e’ un insieme di individui che remano a casaccio nelle direzioni piu’ disparate mentre la barca affonda, ma e’ invece in grado di remare in maniera coordinata verso la salvezza, ossia capace di unita’ nel momento in cui il pericolo e’ maggiore. Sappiamo benissimo che le conseguenze della crisi saranno piu’ severe proprio per coloro che hanno beneficiato di meno dell’espansione dei mercati e dello sviluppo della finanza degli ultimi dieci anni. Lo stato, inoltre, si e’ accollato negli ultimi mesi perdite reali e potenziali rilevanti, che impongono costi e rischi a tutti i cittadini e i risparmiatori italiani. Lo fa a ragione e nell’interesse comune perche’ e’ nell’interesse comune evitare il collasso del sistema bancario. Tuttavia non sarebbe ingiustificato chiedere a chi ha beneficiato di piu’ dell’espansione economica degli ultimi anni un contributo maggiore per il salvataggio di un sistema che li vede generosamente remunerati. E’ un onere che una classe dirigente ed una élite economica responsabili e previdenti, e soprattutto all’altezza della drammaticita’ del momento, dovrebbero saper percepire come un dovere.

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