Tra i principali fattori alla radice della sostanziale stagnazione dell’economia italiana nel nuovo secolo vi è una dinamica molto insoddisfacente della produttività nel settore dei servizi nella quale la performance della PA gioca un ruolo cruciale.
Riguardo alla valutazione della sua performance, nell’esperienza italiana concreta ci si è mossi lungo due prospettive. La prima è quella che possiamo definire di “organizzazione industriale” (nel senso che questa espressione assume nella moderna microeconomia), la seconda quella della “riforma burocratica”. La prospettiva di “organizzazione industriale” dovrebbe condurre alla riorganizzazione delle reti territoriali di “uffici” sulla base delle economie di scala e di diversificazione e della costruzione di indicatori di inefficienza tecnica. Ci si aspetterebbe, in un paese in cui la qualità dei singoli settori dell’amministrazione è sempre stata molto eterogenea, con situazioni di eccellenza accanto ad altre molto arretrate (basti pensare alle differenze di performance che si osservano tra gli ospedali, tra le scuole, tra i tribunali), un grande sforzo teso a disegnare sistemi di misurazione per valutare e confrontare le singole unità amministrative e per ridefinire i modelli organizzativi. Numerose analisi empiriche dimostrano quanto siano ampi i guadagni potenziali ottenibili, in termini di costi e/o risultati, anche soltanto riuscendo, in ogni settore, a portare le unità meno efficienti sul livello di efficienza media osservato per l’insieme di quel settore.
E’ questa la cornice in cui si sviluppa la riflessione dell’economista Giuseppe Pisauro in un articolo di tre anni or sono e che riproponiamo in diretta connessione e continuità con l’analisi di Vincenzo Visco pubblicata giorni fa sempre in questo sito. E’ un contributo di riflessione che si vuole sottoporre al nuovo governo, il quale ha inserito tra le sue priorità una riforma della Pubblica amministrazione.
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