Commento alla delega fiscale preparato su richiesta della Commissione Finanze
La caratteristica più evidente della legge delega per la riforma fiscale consiste nella sua genericità, se non vaghezza, che non consente di comprendere in che direzione vorrà indirizzarsi il Governo nella sua attuazione, dato che tutte le opzioni possibili appaiono in teoria praticabili. Ciò crea seri dubbi sulla costituzionalità del progetto. Ed è anche interessante notare come questa genericità venga evocata nella stessa relazione tecnica al provvedimento per giustificare l’impossibilità di quantificare l’onere della prevista eliminazione dei micro-tributi.[1]
Arti. 1:
Contiene i principi e criteri direttivi generali della delega sui quali non c’è molto da commentare salvo forse che l’indicazione di ridurre il “carico fiscale sui redditi derivanti dall’impiego dei fattori di produzione” appare impropria in quanto il problema si pone soprattutto per i redditi di lavoro e non per quelli derivanti da capitale, terra, ecc.
Art. 2:
Contiene l’aspetto più rilevante da un punto di vista sistematico della delega, e cioè l’introduzione “graduale” di un organico sistema di Dual Income Tax. E’ bene essere consapevoli che la gradualità quasi sempre comporta la mancata applicazione di una riforma nella sua completezza. In proposito va ricordato che il sistema DIT era già stato introdotto con la riforma Visco del 1996, rimasto incompiuto e poi revocato dal Governo successivo, soprattutto perché non compreso nella sua logica e nelle sue implicazioni.
Come è noto, il sistema duale implica di trattare in modo diverso i redditi di lavoro e quelli di capitale. Questi ultimi vengono assoggettati ad un’unica aliquota proporzionale (nel disegno originario, quella iniziale della scala dell’imposta progressiva) in modo da assicurare la neutralità del sistema fiscale rispetto alla allocazione delle risorse, mentre i redditi di lavoro continuerebbero ad essere soggetti all’imposizione progressiva. Con la DIT si manifesta quindi di fatto il capovolgimento delle convinzioni teoriche e politiche fino ad allora prevalenti: con la sua introduzione si affermava, cioè, che i redditi di capitale hanno una capacità contributiva minore dei redditi di lavoro. Per la giustificazione di questa scelta (in apparenza paradossale) si può fare riferimento al fatto che in tempi di inflazione elevata, come ancora erano quelli dell’inizio degli anni ’90, la tassazione degli interessi e dei guadagni di capitale (a differenza di quella sui profitti) colpiva anche la componente inflazionistica di questi redditi, e quindi risultava eccessiva se riferita al reddito effettivo (reale), e quindi una tassazione ridotta, forfettaria, poteva essere ragionevole. Il nuovo sistema inoltre rispondeva anche alla necessità di attrezzare i sistemi fiscali alla nuova situazione di concorrenza fiscale internazionale, alla globalizzazione dei mercati, ecc.. Per quanto riguarda l’Italia, Paese nel quale i redditi di capitale erano stati sempre esclusi dall’imposta generale sul reddito e tassati in modo sostanzialmente discrezionale con una molteplicità di aliquote proporzionali differenti, il modello DIT forniva l’occasione per una forte razionalizzazione e per la tassazione (per la prima volta nella storia d’Italia) dei guadagni di capitale realizzati sui mercati finanziari. Ma proprio l’abitudine a giustificare ogni sorta di deroga ad una tassazione ordinaria di questi redditi, a partire dal trattamento degli interessi sui titoli di Stato, determinò poi il fallimento sostanziale del modello nella sua applicazione concreta.
Il sistema DIT pone inoltre un problema rilevante per quanto riguarda i redditi misti, quelli ottenuti con l’apporto sia di capitale che di lavoro, e cioè quelli delle piccole imprese individuali e di alcune professioni. Di questi problemi è bene essere consapevoli. Le due componenti di reddito (da lavoro o da capitale) andrebbero infatti separate e tassate differentemente. In concreto, al valore dei beni capitali posseduti (risultanti dalla contabilità) andrebbe attribuito un rendimento figurativo in base al tasso di interesse delle obbligazioni pubbliche o altro analogo indicatore. L’ammontare così individuato dovrebbe essere tassato con l’aliquota ridotta applicabile ai redditi di capitale, mentre la parte restante, attribuibile al lavoro, dovrebbe esser tassata con l’imposta progressiva. Ciò porterebbe ad alcuni risultati difficili da far comprendere ed accettare: Per esempio, a parità di reddito, i professionisti pagherebbero quasi sempre di più degli altri lavoratori autonomi; i dentisti di meno degli altri medici; i commercianti spesso meno di alcuni artigiani; un barbiere più di un meccanico, ecc.
Ma questo richiede la logica del sistema DIT, sistema che andrebbe esteso anche alle società di capitale prevedendo il calcolo forfettario del reddito attribuibile al capitale proprio (o ai suoi incrementi nel tempo), vale a dire i profitti “ordinari” che andrebbero tassati con l’imposta proporzionale, mentre la rimanente parte dei profitti, se esiste, potrebbe essere tassata con un’aliquota più elevata, in quanto essi sarebbero extraprofitti, vale a dire rendite che potrebbero essere tassate senza conseguenze economiche negative. Questa soluzione, corretta in ambito DIT, sarebbe però incompatibile con l’attuale ACE.
In sostanza l’applicazione organica del modello DIT incontrerà non pochi ostacoli in sede di attuazione, anche se essa rappresenterebbe un evidente progresso rispetto alla situazione attuale. Va anche considerato che la situazione economica attuale è molto diversa da quella che agli inizi degli anni ’90 suggerì il passaggio al sistema DIT: l’inflazione non è più un problema, lo scambio di informazioni tra Paesi circa la titolarità dei redditi di capitale, per quanto insufficiente, è attivo e può diventare più incisivo, tutti i Governi hanno bisogno di maggiori entrate e quindi sono impegnati (almeno a parole) a contrastare i paradisi fiscali e a combattere le diseguaglianze, il recente accordo in sede Ocse sulla tassazione delle multinazionali apre una nuova fase di contrasto all’elusione fiscale internazionale, sia a livello politico che accademico si riscontra un rinnovato interesse per tassazioni a base patrimoniale….In conclusione il modello DIT appare forse già superato dai tempi, tanto più che il problema principale che i sistemi fiscali dei Paesi sviluppati dovranno affrontare nei prossimi anni sarà quello di ridurre il prelievo fiscale e contributivo sui redditi di lavoro per trasferirlo su altri redditi o attività.
Per questi motivi personalmente suggerisco l’adozione di un sistema duale con un’imposta progressiva sui redditi da lavoro affiancata da un’altra imposta personale progressiva sul patrimonio posseduto (o sul suo rendimento figurativo) con un abbattimento alla base e destinato a sostituire i prelievi patrimoniali e sui redditi di capitale esistenti.
Sempre l’art. 2 contiene gli indirizzi generali per la riforma dell’Irpef che sono la riduzione delle aliquote medie effettive su lavoro, la riduzione delle variazioni eccessive delle aliquote marginali effettive (non di quelle statutarie), e il riordino delle deduzioni e detrazioni (spese fiscali). Si mantiene la struttura progressiva dell’imposta senza scegliere tra la soluzione a scaglioni e una funzione continua in grado di determinare direttamente le aliquote medie o l’ammontare dell’imposta dovuta, ambedue avanzate in Parlamento. La seconda soluzione, oltre alla maggiore semplicità, consentirebbe, a parità di gettito, di limitare l’incidenza dell’imposta sul ceto medio, come inevitabilmente fanno le strutture delle aliquote con pochi scaglioni. In verità per risolvere i problemi e le irrazionalità della nostra imposta sul reddito che derivano in buona misura dalle detrazioni decrescenti e dal bonus 80/100 euro, servirebbero almeno 20 miliardi che in parte potrebbero essere ottenuti eliminando i trattamenti di favore esistenti (forfait per i lavoratori autonomi, agricoltura…) e riducendo sostanzialmente le spese fiscali. In sostanza quindi una “vera” riforma dell’Irpef sembra rinviata a tempi migliori.
Non si comprende infine perché alla lett. d) dell’articolo si torni sul problema della “armonizzazione dei regimi di tassazione del risparmio” che dovrebbero aver trovato soluzione da quanto disposto nella precedente lettera a) (DIT).
Art. 3:
Riguarda l’ires e la tassazione del reddito di impresa. La delega estende correttamente il sistema DIT anche alle imprese maggiori e propone di allargare la base imponibile dell’imposta ravvicinando i valori fiscali a quelli civilistici “con particolare attenzione alla disciplina degli ammortamenti”, il che significa la fine degli ammortamenti accelerati, del super ammortamento, e del programma industria 4.0. Proposte condivisibili nel contesto di una riforma strutturale, ma che non esauriscono le possibilità di recupero della base imponibile, anche se va riconosciuto che le proposte relative alla “patent box” e alle rivalutazioni, avanzate in altra sede, vanno nella giusta direzione.
Art. 4:
Riguarda l’Iva e le altre imposte indirette. Per quanto riguarda le accise si propone la loro ristrutturazione in senso ecologico, il che comporta l’eliminazione delle agevolazioni esistenti per l’agricoltura, gli autotrasportatori, ecc. Giusto, ma non sarà facile.
Per l’Iva si prevede la possibilità di qualsiasi tipo di intervento: variazione del numero e del livello delle aliquote, lo spostamento di beni da un’aliquota all’altra, e anche interventi antievasione. In sostanza si ipotizza, senza esplicitarlo, un aumento dell’incidenza dell’imposta e del suo gettito. Questo approccio esprime una convinzione molto diffusa secondo cui il gettito più basso dell’imposta in Italia dipende dal fatto che i beni ad aliquota ridotta sono troppo numerosi e che quindi una parte di essi dovrebbe essere spostata sull’aliquota ordinaria. In realtà non è proprio così: il minor gettito rispetto agli altri Paesi dipende soprattutto dalla ben maggiore evasione in Italia. Su questo aspetto bisognerebbe quindi agire, ricordando che l’evasione dell’Iva è la premessa logica e contabile anche dell’evasione delle imposte dirette. Esistono proposte avanzate dal Nens che se adottate interamente potrebbero risolvere in modo forse definitiv il problema dell’evasione in Italia.[2] In ogni caso vorrei ricordare che la semplice adozione di un’aliquota unica sulle transazioni intermedie (B2B), pur essendo irrilevante per quanto riguarda l’incidenza finale dell’imposta, consentirebbe di recuperare almeno 10-15 miliardi in quanto verrebbe meno l’uso strumentale della differenza delle aliquote da parte dei contribuenti.
Art. 5:
L’art. 5 prevede l’abolizione (anche essa graduale) di quello che resta dell’Irap Si tratta di una scelta discutibile anche se sostenuta da diverse formazioni politiche. In proposito è utile ricordare come nacque l’imposta. L’Irap ha rappresentato un formidabile strumento di razionalizzazione e semplificazione del sistema tributario italiano che applicava il paradigma di fondo delle riforme tributarie degli anni ’89-’90 del secolo scorso: allargare le basi imponibili e ridurre le aliquote. Ed infatti la base imponibile dell’Irap era il valore aggiunto netto dell’economia, e cioè il reddito nazionale, e la sua aliquota del 4,25% consentì di eliminare l’Ilor che colpiva i profitti con il 16,2%, i contributi sanitari (10,6%), la tassa sulla salute pagata dai lavoratori autonomi, l’imposta sul patrimonio netto delle imprese dello 0,75%, equivalente ad un ulteriore prelievo sui profitti del 5-10% (a seconda del grado di redditività delle imprese), più altre imposte minori tutte pagate dalle imprese (l’Iciap, la tassa di concessione sulla partita Iva, le tasse di concessioni comunali, ecc.).
Spalmando i contributi sanitari su una base imponibile molto più ampia dei redditi di lavoro, l’Irap contribuì a ridurre il costo del lavoro (cuneo fiscale), e a riequilibrare la composizione del prelievo fiscale in Italia. Infatti, mentre nel 1996 le imposte indirette rappresentavano l’11,8% del Pil e i contributi sociali il 15%, nel 2001, grazie all’introduzione dell’Irap, la percentuale delle imposte indirette salì al 14,5% e quella dei contributi scese al 12,7/. In questo modo l’Irap, grazie alla riduzione dei contributi sociali e al contestuale aumento del gettito Iva (recupero di evasione), contribuì anche al sostegno delle esportazioni.
E’ chiaro che l’imposta attuale è molto diversa da quella originale, ma la sua eliminazione peggiorerebbe la struttura del sistema tributario italiano. Innanzitutto bisognerebbe recuperare il gettito: se ciò avvenisse attraverso l’aumento delle aliquote di altre imposte esistenti, la tassazione delle imprese diventerebbe maggiormente distorsiva da un punto di vista economico; per quanto riguarda il finanziamento della sanità verrebbe meno ogni disincentivo ad eventuali aumenti eccessivi delle spese sanitarie da parte delle regioni che non dovrebbero più temere un aumento di imposizione sui propri cittadini; verrebbe meno un cespite rilevante che è alla base della autonomia tributaria degli enti decentrati, e si eliminerebbe un disincentivo all’uso del finanziamento con debito piuttosto che con capitale proprio da parte delle imprese.
Di imposte come l’Irap originaria avremo ancora bisogno in futuro, e personalmente eviterei di toccare anche quella attuale; tuttavia se proprio si volesse intervenire nella direzione indicata dalla delega, una soluzione possibile potrebbe essere quella di limitare il prelievo alle sole società di capitali (ipotizzando una loro maggiore capacità contributiva) ed escludendo gli altri contribuenti.
Art. 6:
L’art. 6 riguarda la revisione del catasto dei fabbricati. Si tratta di una riforma di cui si discute da molti anni. I valori catastali attuali sono infatti basati su rilevazioni effettuate negli anni ’30 del secolo scorso aggiornati periodicamente per tener conto delle variazioni dei prezzi. L’ultimo adeguamento risale al Governo Monti che al tempo stesso presentò in Parlamento una delega di riforma complessiva. La delega fu poi recuperata in sede parlamentare nella legislatura successiva e approvata all’unanimità. Non si comprendono quindi le polemiche che hanno accolto l’attuale proposta di riforma.
Il fatto è che oggi i valori catastali non hanno nulla a che vedere con la realtà: sono arbitrari e discrezionali. In caso di riforma i valori immobiliari aumenterebbero (in medi di circa il doppio), ma alcuni aumenterebbero più di altri, mentre in alcuni casi potrebbero addirittura ridursi (immobili accatastati recentemente con rendite fissate prima del crollo dei prezzi determinato dalle recenti crisi). Aumenterebbero di più i valori delle grandi città rispetto a quelli delle città rimaste con popolazione stabile o in riduzione, o rispetto ai piccoli paesi; quelli dei centri urbani rispetto alle periferie; quelli del nord rispetto al sud. Ragionando a parità di gettito le aliquote attuali relative a Imu e registro dovrebbero essere dimezzate (diverso può essere il caso delle successioni). Ne seguirebbe una redistribuzione del prelievo in direzione di una maggiore equità.
Nulla si dice invece del catasto dei terreni, anche esso obsoleto e più in generale della tassazione in agricoltura.
Art. 7:
L’articolo prevede la trasformazione delle attuali addizionali regionali e comunali all’Irpef in sovraimposte, al fine di non consentire più interventi che modificano la struttura della progressività della imposta sul reddito tra cittadini che risiedono in zone diverse del Paese. E’ una proposta che personalmente avanzo da tempo e che quindi condivido.
Art. 8:
Riguarda la riforma del sistema della riscossione. Le indicazioni, sempre generiche, sembrano condivisibili. Ma non mi sembra che vengano affrontati i problemi più delicati che riguardano i poteri coercitivi effettivi del sistema e quindi le sue capacità non solo di effettivo recupero del gettito, ma soprattutto di deterrenza.
Oggi, se si confrontano i diritti dello Stato alla riscossione coattiva dei propri crediti con quelli dei privati (banche), si nota una sproporzione notevole a favore dei privati. Ma senza una riscossione efficace il contrasto all’evasione risulta fortemente indebolito.
Andrebbe inoltre evitata la decadenza automatica delle cartelle non solo per cause oggettive, ma anche per inadempienze e ritardi dell’amministrazione.
Art. 9:
Prevede la codificazione delle norme tributarie, obiettivo più che condivisibile anche se richiede molto lavoro. Va però chiarito che se i codici vengono elaborati, ma si continua a consentire al Parlamento di legiferare liberamente in materia fiscale, in pochi anni il lavoro verrebbe vanificato. Andrebbe quindi previsto che una volta approvate le norme in sede parlamentare, esse vengano inserite nei codici tributari ad opera del Governo in modo coerente, razionale e sistematico. Solo così si eviterebbe la necessità degli operatori di dover inseguire singole norme tributarie disseminate in molteplici provvedimenti legislativi, non coordinate tra loro e talvolta contradittorie.
Art. 10:
Stabilisce che la delega debba essere esercitata a parità di gettito, salvo il recupero di risorse aggiuntive. Condivisibile, ma il rispetto di questo vincolo implica che con l’attuazione della delega possano esserci vincenti e perdenti. Rispetto alla richiesta di una generale riduzione delle imposte che viene da tutte le forze parlamentari, occorre una forza politica notevole e una altrettanto forte determinazione per rispettare questo obiettivo.
Quali conclusioni si possono raggiungere in base alle precedenti considerazioni? In che misura la delega risponde alle esigenze di riforma del sistema? Quali sono le possibilità concrete di realizzazione?
Partendo dall’ultimo punto, le prospettive non appaiono molto favorevoli: le questioni fiscali sono quelle politicamente più divisive e che esprimono visioni e concezioni del mondo e della società diversi, alternative se non contrapposte, quindi le scelte specifiche non verranno accolte bene o dall’una o dall’altra parte. La delega deve inoltre essere approvata, e il Parlamento cercherà di modificarla. Il tempo a disposizione appare piuttosto breve, e potrebbero sorgere difficoltà e problemi per la stessa stabilità e durata del Governo.
Per quanto riguarda i problemi attuale del fisco italiano che dovrebbero essere affrontati, si può fare riferimento alla lista seguente, comunque sicuramente non esaustiva:
-La generale frammentazione che ha prodotto una sorta di balcanizzazione e “ri-cedolarizzazione” del sistema per cui diverse tipologie di reddito sono trattate diversamente, e contribuenti con lo stesso reddito subiscono prelievi differenti (anche in misura rilevante): oggi gli agricoltori non pagano (quasi) imposte, gran parte degli artigiani, commercianti e professionisti beneficia di un regime forfettario molto favorevole (in realtà di un “privilegio esorbitante”), i lavoratori dipendenti che percepiscono il bonus 80-100 euro sono avvantaggiati rispetto agli altri, mentre, a parità di reddito, i pensionati e gli altri lavoratori dipendenti sono relativamente discriminati (talvolta in misura sostanziale), i premi di produzione e le stock options beneficiano di un trattamento di favore, ecc.
-La perdurante evasione di massa.
-Il progressivo inaridimento dei redditi di lavoro come base per la tassazione che si è verificato negli ultimi 30 anni: essi si sono ridotti rispetto al reddito nazionale dal 65-70% degli anni ’80 del ‘900 a meno del 50% di oggi, e quindi sistemi fiscali che facevano affidamento per il finanziamento della spesa pubblica (welfare) soprattutto su contributi sociali e imposte sul reddito si trovano in difficoltà crescenti. Sarà quindi necessario redistribuire il prelievo. A tali fini il ricorso ad imposte a larga base imponibile, come l’Irap o prelievi analoghi, diventerà sempre più consigliabile e probabile.
-La ridotta capacità redistributiva del sistema nel suo complesso, e la scarsa preoccupazione per la sua efficienza e neutralità economica.
-Il trattamento difforme dei redditi di capitale.
-La struttura delle aliquote dell’Irpef erratica e caratterizzata da numerose aliquote implicite, che risultano talvolta decrescenti al crescere del reddito, e l’erosione crescente della sua base imponibile.
-La necessità di razionalizzare l’imposizione sulle imprese da differenziare secondo che si tratti di contribuenti minimi, imprese individuali, o società per azioni.
-La scarsa razionalità dell’imposizione a base patrimoniale, e la questione del catasto fabbricati.
-La tassazione dell’agricoltura.
-La finanza locale.
- Il sistema della riscossione.
-Il contenzioso.
-La modernizzazione dei sistemi di accertamento con l’utilizzazione dei big data e dell’intelligenza artificiale.
-Il rafforzamento del sistema doganale soprattutto in previsione dei controlli da effettuare selle merci a fini di tutela ambientale.
-………
In che misura la delega fiscale affronta e risolve questi problemi? Solo in parte e in maniera né chiara né esplicita.
Se essa sarà integralmente attuata vi sarà un evidente progresso, ma non siamo certo di fronte ad “una grande riforma”.
[1] In proposito può essere utile ricordare che la riforma del 1996 che ridisegnò l’intero sistema fiscale italiano dopo poco più di 20 anni dalla riforma del 1973 (L. 23.12.1996, n. 662), consisteva in ben 11 deleghe molto precise e dettagliate, con relative previsioni di gettito, e che affrontavano temi quali: L’armonizzazione a fini fiscali e previdenziali dei redditi da lavoro dipendente, dei relativi adempimenti e sistemi sanzionatori; la revisione delle norme sulla soggettività passiva dell’IVA, della disciplina delle detrazioni e dei regimi speciali, al fine di ridurre le possibilità di elusione dell’imposta; la revisione della normativa sull’accertamento con adesione; l’introduzione degli studi di settore; la razionalizzazione delle sanzioni tributarie non penali; la semplificazione degli adempimenti prevedendo la compensazione tra debiti e crediti di imposte diverse, e l’unificazione dei termini e modalità di riscossione, liquidazione ed accertamento; l’introduzione dell’Irap e la contestuale abolizione di 11 imposte, contributi e tributi vari, tra cui i contributi sanitari e la “tassa sulla salute”; la riforma della finanza locale, e criteri per la modernizzazione del catasto; la completa ridorma della tassazione dei redditi di capitale secondo uno schema DIT, esteso anche alle imprese; la riforma della normativa sulle ristrutturazioni aziendali (fusioni, scorpori, ecc.); la riforma della tassazione degli enti non commerciali e l’introduzione di una apposita disciplina per le Onlus.
[2] Va ricordato che le proposte Nens avanzate nel corso degli anni ed accettate dai Governi di turno, come lo split payment, il reverse charge, e la fatturazione elettronica, sono le uniche che hanno consentito una riduzione dell’evasione dell’imposta.
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