Di Luciano Cerasa - Direttore Nens
La terza legge di Bilancio varata dal governo Meloni, del valore di 30 miliardi di euro, continua a perseguire gli stessi interessi clientelari delle precedenti, lasciando indietro la maggioranza della popolazione, sempre più impoverita e in difficoltà.
Lavoratori dipendenti e precari, pensionati, piccoli imprenditori, false partite Iva e le loro famiglie sono chiamati a pagare il conto di scelte di politica internazionale avventuristiche e delle conseguenze di una epocale crisi di sistema, attraverso un gigantesco trasferimento di valore prodotto dal lavoro verso evasori, redditieri, detentori di grandi patrimoni, inquinatori, banche, imprese energetiche e produttori di armi.
C'è un mondo là fuori sferzato dall’inflazione galoppante, da un crollo strutturale della produzione industriale nelle maggiori economie europee e da un’emergenza climatica senza freni, totalmente ignorato dalla manovra della destra che si muove esclusivamente nella cornice, tutt'altro che splendida, di tagli reali al welfare e ai salari, drenaggio fiscale su stipendi, pensioni e consumi e mance elettorali agli evasori, queste ultime neppure tanto gradite.
Gli interventi fiscali e le regalie agli evasori, che neppure apprezzano
Il flop di adesioni registrato per il concordato preventivo biennale 2024-2025, escogitato dal Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, per sostenere le sorti incerte della lega nell’elettorato di riferimento, è la conseguenza non tanto dell’inadeguatezza della scontistica concessa a favore degli evasori fiscali, in realtà molto più generosa dei precedenti condoni, quanto del rischio di uscire allo scoperto con l’agenzia delle entrate. Accendere un faro sulla propria traballante posizione fiscale, operazione resa necessaria dal meccanismo di applicazione del beneficio, viene guardata con grande diffidenza da molti dei destinatari del concordato. Si tratta di una categoria privilegiata di contribuenti che ha molto da nascondere e che è abituata a non aspettarsi tanti controlli fiscali, visto che, in base alla statistica, la probabilità di un accertamento individuale da parte del fisco, fatto a campione, è finora di uno ogni vent’anni.
Il patto è quindi destinato a non produrre quel gettito sperato. Prima della riapertura dei termini, fissati in un primo momento al 31 ottobre, le adesioni al concordato sono state 500mila su una platea di 4,7 milioni di potenziali aderenti, per un incasso di 1,3 miliardi di euro. Un risultato ben lontano dai 2-3 miliardi di gettito che servirebbero, secondo le aspettative del governo, a far scattare una riduzione di uno o due punti delle aliquote Irpef applicate sui redditi medi e alti. Il flop è stato confermato anche alla scadenza della riapertura dei termini.
Mentre i salari continuano ad essere tra i più bassi in Europa
I dati presentati in una recente indagine della fondazione Di Vittorio, ci dicono che l’Italia è l’unico paese europeo dove i salari si sono ridotti, negli ultimi 23 anni. Persino la Spagna, che pure partiva da una base molto arretrata, ha mostrato segni di ripresa significativi: dal 1991 al 2023 le retribuzioni sono salite di oltre il 9%, mentre nel nostro paese scendevano nello stesso periodo di oltre il 3%. Quanto al potere d’acquisto dei salari, anche qui i numeri della Cgil non lasciano spazio a interpretazioni: dal 1990 al 2020 in Italia è sceso del 2,9%. la flessione salariale più pesante negli ultimi 50 anni si registra tra il 2021 e il 2024 con un meno 10,1% di mancato recupero.
Ancora secondo un rapporto curato da Uiltucs, il sindacato del terziario della Uil, focalizzato sull’andamento degli ultimi dieci anni, la curva del potere d’acquisto dei salari in Italia è ulteriormente precipitata verso un picco negativo dell’8%, rispetto al +18,4% conseguito dalla media Ocse e al +22,6% della zona euro.
La perdita di valore reale dei salari è stata ancora più grave nel terziario, dove le retribuzioni sono arretrate dell’11,4% rispetto all’indice IPCA-NEI (Indice dei prezzi al consumo armonizzato, al netto dei beni energetici importati) e del 13,5% rispetto all’inflazione rilevata dall’indice NIC (Indice dei prezzi al consumo per l'intera collettività).
Al contrario, la produttività del lavoro nel paese è cresciuta nell’ultimo decennio in tutti i settori, esclua l’agricoltura, con una media del 3,2% (+16,3% nel commercio), ma questa crescita non ha avuto nessuna ricaduta positiva sugli stipendi. Una situazione opposta a quanto si è verificato in Germania, dove gli aumenti salariali hanno superato il carovita del 14%.
In Italia l’aumento della produttività segna una moderata e parziale redistribuzione ai salari solo nel periodo tra il 2001 e il 2010, mentre tra il 2000 e il 2022 si allarga una forbice retributiva di ben 30 punti con Germania e Francia. insomma, in Italia calano gli investimenti pubblici e privati e crescono solo profitti dei grandi gruppi, precarietà e bassi salari.
Dipendenti e pensionati i più tartassati
Alla sottrazione di valore, in termini di produttività media per addetto non redistribuita, registrata sia nel settore privato che pubblico, si aggiunge il peso, in termini assoluti e relativi, del prelievo operato dallo stato sul reddito da lavoro dipendente con l’imposizione fiscale e contributiva.
Le statistiche ufficiali sulle dichiarazioni dei redditi 2023, riferite all’anno di imposta 2022, pubblicate sul sito del ministero dell’Economia, ci dicono che le tipologie di reddito maggiormente dischiarate in ambito Irpef sono il lavoro dipendente (53,5% del montante del reddito complessivo e 55,4% del totale contribuenti) e le pensioni (29,6% del montante del reddito complessivo e 34,6% del totale contribuenti). In totale, i redditi da lavoro dipendente e da pensione costituiscono circa l’83% del gettito Irpef.
La fuga dall’Irpef
L’Irpef è diventata l'imposta più evasa, facendo scendere al secondo posto l'Iva. A dirlo è il comandante generale della Guardia di Finanza, Andrea De Gennaro, in audizione alla Commissione parlamentare di vigilanza sull'Anagrafe tributaria, che ha sottolineato come questa cubi “un ammontare raggiunto nel 2021 di oltre 33 miliardi, ovvero circa il 46% del tax gap tributario complessivo”.
Nel dettaglio, rispetto al 2017, nel 2021 la differenza tra gettito effettivo e atteso si è ridotta di un quarto, per un ammontare di 26 miliardi di euro, quasi interamente determinato dalla riduzione del gap relativa alle entrate tributarie (24,6 miliardi di euro). tuttavia “oltre il 70% di questa contrazione, pari a circa 17,8 miliardi di euro, è dovuto alla diminuzione del gap Iva, che si è dimezzato”, ha spiegato la Gdf. Un risultato reso possibile grazie a misure anti-evasione come l’introduzione della fatturazione elettronica e dei meccanismi di versamento diretti dell’imposta, “split payment” e “reverse charge”, proposte da Nens.
Il taglio del cuneo fiscale
Davanti alla montagna di questo ambiente economico fortemente deteriorato in cui si muovono con crescente difficoltà ormai decine di milioni di famiglie, il governo ha partorito il topolino del taglio del cuneo fiscale che, come è stato calcolato da importanti istituti di ricerca, porterà vantaggi a pochi e penalizzazioni a tanti, fino a oltre mille euro l’anno, sulle buste paga di milioni di contribuenti. In realtà questo provvedimento, formalmente presentato da tre anni a questa parte come un taglio delle tasse, si configura piuttosto come la fiscalizzazione della vecchia decontribuzione già applicata su pressione dei sindacati dal governo Draghi.
Il risultato è che lavoratori e pensionati pagheranno complessivamente 17 miliardi in più di Irpef a causa soprattutto del drenaggio fiscale sui rinnovi contrattuali e la rivalutazione delle pensioni, che azzererà, in una enorme partita di giro, lo sconto fiscale concesso con il taglio del cuneo. A questo aumento della pressione fiscale a carico dei redditi delle fasce più esposte della popolazione, si aggiunge il “fiscal drag” dell’Iva ad aliquote invariate sui prezzi, divenuto significativo al crescere dell’inflazione sui beni di largo consumo.
Rispetto a gennaio 2021 L’inflazione ha toccato nel corso dell’anno punte di 21 punti per i beni alimentari non lavorati e l’indice Ipca per i beni energetici ha addirittura segnato un incremento di oltre 51 punti percentuali, avverte l’Area studi Legacoop-Prometeia. L’ultimo dato Istat segnala un ulteriore rialzo dell’inflazione dell’1,4%. Il quadro economico che ne consegue per i bilanci delle famiglie descrive volumi di consumo stagnanti e addirittura in diminuzione per il settore dei servizi e ricadute sulla qualità di quello che gli italiani mettono in tavola. Nel settore alimentare la strategia antinflazione più adottata dai consumatori porta a spostare gli acquisti sui prodotti più a buon mercato e scadenti. Diminuisce il consumo di pesce e di prosciutto, aumenta quello delle carni in scatola e della mortadella, cresce il consumo della pasta. L'alimentazione influisce sulla salute. Un aumento di obesità e di incidenza di malattie cardiovascolari si ripercuoterà su un servizio sanitario nazionale allo stremo. La capacità di risparmio degli italiani è in calo da mesi: quasi 1 famiglia su 2 pari al 43,8% dichiara una diminuzione, solo per il 9,9% è aumentata."
Fisco, dov’è il bluff?
Con il nuovo meccanismo di bonus e detrazioni contenuto nella manovra, sottolinea l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) nella memoria preparata per l’audizione sulla legge di Bilancio, circa 800mila lavoratori subiranno una perdita in media di circa 380 euro, mentre altri 12,2 milioni non vedranno né vantaggi né penalizzazioni.
A vedere qualcosa in più in busta paga saranno solo 5,7 milioni di contribuenti: ma di questi 3,7 milioni sono persone che fino a quest’anno non hanno beneficiato della decontribuzione, perché collocati nella fascia tra i 35mila e i 40mila euro di reddito che non la prevedeva.
i più penalizzati invece, sempre secondo le simulazioni dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, si concentrano proprio nelle fasce basse, dopo aver subito anni di perdita, come abbiamo visto, del potere d’acquisto.
Per un dipendente che guadagna mille euro lordi al mese, e non ha altri redditi, lo svantaggio sarà di 21 euro l’anno. Per chi guadagna il doppio, la perdita sarà pari a 58 euro. Trenta euro in meno, invece, lo subirà un lavoratore con un reddito da 30mila euro. Andrà ancora peggio per un lavoratore impegnato solo per sei mesi all’anno con un reddito di 6mila euro lordi: per lui la perdita arriva a 109 euro.
la macchinosa riforma poi diventa una lotteria per coloro che hanno redditi aggiuntivi rispetto a quelli da lavoro dipendente, come compensi da lavoro autonomo o rendite da affitti.
Se una persona con un reddito da lavoro di 30mila euro annui e altri 10mila euro di redditi diversi nel 2024 ha avuto diritto a una decontribuzione pari a 1.030 euro, dal 2025 non avrà più nulla. Chi ha un reddito da lavoro pari solo a 12mila euro, più altri 10mila euro di redditi diversi, passerà invece da una decontribuzione di 579 euro a mille euro. Poche centinaia di euro che certo non riusciranno a compensare per questa fascia di popolazione, particolarmente penalizzata dalla manovra, i tagli generalizzati a sanità e servizi e l’inflazione a due cifre rispetto al 2022.
Il motivo principale di questo rimescolamento abbastanza casuale di detrazioni e bonus è che mentre la decontribuzione era riferita solo ai contributi previdenziali, con un taglio di sette punti fino a 25mila euro e di sei punti fino a 35mila, la riformulazione, contenuta in manovra si applicherà al reddito complessivo della persona. Quindi, in alcuni casi, questo può far superare il tetto dei 40mila euro e comportare la perdita di ogni beneficio, mentre in altri può aumentare la base di calcolo e far lievitare lo sconto.
Non fermarsi alle apparenze
L’intervento sul cuneo fiscale sembrerebbe sostenere la fascia media (e alta) dei percettori di reddito. Tuttavia uno studio del centro studi Nens volto a stabilire le dinamiche reali innescate dalle nuove misure su aliquote e scaglioni Irpef, condotto da Vincenzo Visco e Ruggero Paladini, consiglia di non fermarsi alle apparenze.
Per il 2025 la legge di Bilancio conferma e stabilizza i tre scaglioni formali, ma per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, introduce una modifica nella struttura delle detrazioni che porta di fatto a sei gli scaglioni effettivi con aliquote marginali per i ceti medi (tra 28mila e 50mila euro).
Una scelta che è ben lontana dalla sbandierata promessa della Flat tax, in nome della quale lo scorso anno il governo ha eliminato l’aliquota del 25% per i redditi tra i 15mila e 28mila euro, estendendo al tempo stesso il limite del primo scaglione da 15mila a 28mila euro.
Il combinato disposto delle detrazioni decrescenti e della rimodulazione a tre aliquote fiscali, fa sì che man mano che il reddito cresce, la detrazione prevista si riduce, e quindi l’aliquota marginale effettiva aumenta superando quella formale. In virtù di questo meccanismo, i contribuenti con detrazioni più alte (i dipendenti) subiscono aliquote marginali effettive più elevate rispetto a chi beneficia di detrazioni più basse (pensionati ed autonomi). Solo dopo i 50mila euro si torna alle tre aliquote (23-35-43) per il 6% circa dei contribuenti che si collocano sopra l’aliquota massima del 43%.
Per i dipendenti, quindi, gli scaglioni effettivi risultano essere suddivisi in sei fasce:
0 – 15.000 euro: 23%;
15.001 – 28.000 euro: 32,15%;
28.001 – 32.000 euro: 40,41%;
32.001 – 40.000 euro: 56,18%;
40.001 – 50.000 euro: 43,68%;
oltre 50.000 euro: 43%.
Da sottolineare l’aliquota “monstre” del 56,18% che scatta proprio per la fascia di reddito tra 32mila e 40mila euro che in questo modo vede uscire dalla finestra i tagli d’imposta appena rientrati dalla porta.
Questo andamento dell’imposta è determinato dal fatto che è stato introdotto un nuovo bonus (con percentuali decrescenti: 7,1 - 5,3 - 4,8) fino a 20mila euro di reddito con lo scopo di sostituire la precedente fiscalizzazione delle detrazioni per i lavoratori. Un beneficio che affianca il precedente “bonus Renzi”, rimasto invariato con tutti i suoi difetti di applicazione, compresa l’assurda clausola per cui fino a 8.173 euro non è dovuto, mentre a 8.175 scatta integralmente innestando un clamoroso effetto scalino.
L’idea dell'aliquota unica anche per dipendenti e pensionati (Flat tax) si allontana quindi nella nebbia padana e la diversità delle detrazioni (tutte decrescenti e diverse per ciascuna tipologia di contribuenti), fa sì che noi oggi non abbiamo un'unica imposta sul reddito, bensì tre imposte sostanzialmente diverse, una per ognuna delle tre tipologie di contribuenti.
L’imposta sul reddito era nata, e trova la sua ragion d’essere, proprio per unificare i redditi dei contribuenti: un’unica imposta con gli stessi scaglioni e le stesse aliquote per tutti, salvo una differenziazione nelle detrazioni per tener conto delle diverse tipologie di reddito e delle situazioni personali. Detrazioni che dovevano invece essere fisse, in modo da non alterare le aliquote marginali.
Nel Piano strutturale di bilancio di medio termine presentato a Bruxelles, la manovra finanziaria del governo Meloni delinea un quadro di crescita lenta o inesistente, salari piatti e produttività ferma. Un paese senza futuro in cui non solo la legge di stabilità ma lo stesso Pnrr non danno quella spinta al cambiamento di cui il paese avrebbe bisogno.
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