L'anno che verrà nella società catastrofica delle multinazionali

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Dicembre 2020

Il 2020 si chiude con la voglia di archiviare in fretta uno dei periodi più cupi attraversati dall’umanità dal secondo dopoguerra a oggi. Ma quel che ci aspetta rimane avvolto in una coltre minacciosa e oscura mentre è forte la percezione che l’emergenza sia ancora davanti a noi.

Il 2021 si apre con le politiche pubbliche completamente risucchiate dall’impegno di districare i due corni strettamente intrecciati che costituiscono il motore di questa crisi pandemica. Il primo, di ordine sanitario, impone di abbattere e metter fine al contagio perseguendo l’immunità di gregge per mezzo di vaccini messi a punto dalla scienza e dall’industria farmaceutica in pochi mesi, in una competizione affannosa con la diffusione del virus e le sue inquietanti mutazioni.

L’altro, di ordine socio-economico, richiede di mettere in campo e utilizzare nel modo anche qui il più rapido ed efficiente possibile, risorse umane e capitali in quantità gigantesche, tali da evitare la disgregazione dell’attuale tessuto civile e produttivo senza che vi sia alle viste una possibile alternativa sostenibile per i ceti sociali più esposti che non sia l’assistenza pubblica.

Quale futuro allora ci aspetta? I pareri che emergono dai pochi studi dei centri di ricerca che si sono esercitati in materia si muovono su schemi classici, non vanno oltre il breve termine e come spesso accade si tende a confondere la previsione con l’aspettativa.

In una delle 10 “previsioni oltraggiose per il 2021” formulate come ogni anno tra il serio e scherzoso da Saxo Bank, la ripresa successiva al lancio del vaccino anti-Covid finirà con il surriscaldare l’economia. L’inflazione sale e la disoccupazione scende in modo così rapido che la Federal Reserve permette ai tassi dei Treasuries di lungo termine di salire. I default delle aziende vittime del “digital divide” aumentano e le società retail fisiche sono le prime a sparire. Quale miglior scenario per una banca d'investimenti danese specializzata in investimenti e transazioni via internet con sede a Copenaghen? Poco prima nella sua lista dei sogni dorati Saxo Bank inserisce la previsione di un fantasmagorico e assai improvvido trasferimento di Amazon a Cipro, dove l’attende un’Unione europea immaginaria e pentita che prontamente declassa proprio l’isoletta dell’Egeo da paradiso fiscale a comune paese a tassazione ordinaria.

In Italia alcuni vaticini della banca d’affari danese sono già una dura realtà. L'effetto combinato del Covid e del crollo dei consumi del 10,8% (pari a una perdita di circa 120 miliardi di euro rispetto al 2019) porta l’Ufficio studi della Confcommercio a stimare per il 2020 la chiusura definitiva di oltre 390mila imprese del commercio non alimentare e dei servizi di mercato, fenomeno non compensato dalle 85mila nuove aperture. Pertanto, la riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305mila imprese (-11,3%).

L’Asvis, acronimo di Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, delinea per l’immediato futuro del nostro paese quattro possibili scenari diversi, ma tutti accumunati dalla parola “crescita”: economica pur che sia, “green” che integrerà società ed economia con un impegno ambientalista importante e a pelle di leopardo o comune, sia nei territori che nei diversi settori. Tutte le ipotesi formulate hanno come presupposto - dato per scontato visti i 200 e passa miliardi di finanza di sostegno Ue che dovrebbero riversarsi nelle disponibilità dell’Erario nei prossimi mesi – il massiccio intervento dello Stato. Un flusso supplementare di risorse che per l’Asvis deve essere ben orientato al perseguimento dei goal dell’agenda 2030.

In base alle stime dell’andamento del Pil italiano formulate dalla Ue (- 9.9% nel 2020) e dal  governo (+ 6% nel 2021), se parlare per l’anno prossimo di una vera e propria ripresa rispetto alla condizione precedente alla pandemia appare quindi del tutto prematuro si può certamente prevedere un rimbalzo grazie al flusso supplementare di spesa pubblica e ai moltiplicatori che innesterà in alcune filiere produttive e sui consumi.

Recessione e depressione saranno invece le conseguenze inevitabili del coronavirus secondo l’ex governatore della Bce. Per  Mario Draghi la pandemia è una “tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche”. Spetta ora allo Stato e alle banche intervenire in maniera “forte e veloce” per evitare che una “profonda recessione”, che Draghi ritiene “inevitabile”, si trasformi in una “depressione prolungata” causata dai “danni irreversibili di una pletora di bancarotte”.

Il modello comune su cui si basano queste previsioni è che, quale che sia il verso (recessione - crescita e viceversa), la forza traente rimane l’economia di mercato, per la quale alla funzione regolatrice dello Stato è affidato il solo compito anticiclico di edulcorare gli effetti della successione di ripetuti episodi sistemici (diventata tanto serrata da non avere soluzione di continuità nell’ultimo ventennio) sui bilanci di imprese e famiglie, per poi ritirarsi ai minimi termini quando l’emergenza viene meno.

In questa visione neomonetarista la pandemia da Covid 19 sarebbe solo il simbolo di una nuova sottospecie delle cause deflagranti delle crisi ricorrenti, da affrontare con la consueta strumentazione macroeconomica basata sulla riduzione del monte salari, il contenimento delle imposte per imprese e rendite finanziarie e sulle immissioni di liquidità nel sistema a carico dell’Erario. La speranza, plausibile ma probabilmente vana, al quale rimane aggrappata la tenuta del sistema, è che il quantitative easing duri almeno per tutto il prossimo decennio o che il debito possa alla fine essere cancellato con un colpo di spugna.  Purtroppo è un approccio che sembra totalmente inadeguato al quadro in piena evoluzione che ci si sta parando davanti.

La comparsa “regolare” di malattie a tendenza epidemica – dalla Sars all’influenza aviaria alle febbri emorragiche tipo Ebola –,  la regolarità con cui si susseguono incidenti da sostanze chimiche tossiche e i disastri ambientali legati ai cambiamenti climatici,  "bolle" finanziarie che esplodono con effetti di dimensione globali ci pongono di fronte ai mali epocali di una “società catastrofica” di cui il Covid 19 è solo un attore, in cui assumono un ruolo determinante le conseguenze delle azioni delle aziende multinazionali.

La moltiplicazione industriale dei rischi costruiti, come ha ripetutamente sottolineato il sociologo Bruno Latour, mette in questione l’idea stessa che si possano controllare attraverso procedure tecnico-scientifiche e indebolisce le nozioni tipicamente moderne di previsione e di sapere esperto. Al centro della scena pubblica si è insediato stabilmente l’imprevisto, che stravolge le linee guida della decisione politica ed esalta la funzione dell’expertise.

Come evidenziano Sergio Mauceri e Carmelo Lombardo del Dipartimento di sociologia della Sapienza in una recente indagine campionaria pubblicata da Franco Angeli sugli effetti del lockdown, nello spazio globale sospeso creato dalla pandemia, è possibile immaginare gesti-barriera, contro il virus e contro un modo di produzione la cui sostenibilità è sempre più difficile, ma vengono sollevate questioni di medio e lungo termine che interrogano i politici, gli economisti e gli scienziati sociali.

La fine della prima “zona rossa” con il conseguente ingresso nella cosiddetta “fase 2”, è datata 3 maggio 2020. I due mesi di quarantena hanno profondamente cambiato già allora la vita di milioni di italiani e rappresentano l’incipit di una complessa fase storica segnata, oltre che dal pesante rischio sanitario, da ampie ricadute sociali, psicologiche, politiche ed economiche. La prima di più vasta portata è l’accelerazione, che appare consolidata e senza ritorno, dei processi di digitalizzazione dell’economia, della Pubblica amministrazione, della didattica e in generale della comunicazione, ma in particolare del lavoro.

il 54/mo rapporto del Censis stima che quasi 43 milioni di persone maggiorenni (tra queste, almeno 3 milioni di novizi) siano rimaste in contatto durante il lockdown con i loro amici e parenti grazie ai sistemi di videochiamata che utilizzano internet. “L'87% dei cittadini - spiega il Censis - ha dichiarato di avere utilizzato nell'emergenza la connessione internet fissa a casa e che è stata sufficiente. Meno del 10% ha lamentato una mancanza di banda adeguata”. Inevitabilmente, però, “la generazione più anziana è quella che per un terzo (il 32,6%) si autoesclude completamente dal mondo digitale”.

Il fenomeno pandemico legato alla diffusione del virus Covid-19 ha imposto al nostro paese una fase di chiusura delle attività sociali, lavorative e aggregative con un effetto dirompente oltre che sulla vita degli individui anche sui modelli di lavoro tradizionali.

Secondo i dati dell’ultima rilevazione dell’Osservatorio sullo Smartworking del Politecnico di Milano i lavoratori che operavano nel 2019 in questa modalità ammontavano a 570.000 unità. Una tendenza in crescendo del cosiddetto lavoro flessibile, tanto nel settore pubblico quanto nel privato: gli smart- worker, infatti, sono aumentati del 20% rispetto al 2018. In seguito al primo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (23 febbraio 2020), che ha imposto misure restrittive per la gestione dell’emergenza epidemiologica, il numero dei lavoratori agili in Italia è più che raddoppiato, sfiorando la quota di due milioni di unità. I Dati del Ministero del Lavoro segnalano che, al 29 aprile 2020, i lavoratori attivi in modalità smartworking sono 1.827.792; di questi 1.606.617 attivati a seguito dell’emergenza epidemiologica.

I dati indicano che si è realizzata, anche se in modo forzoso, una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro, per la quale erano ormai maturi i tempi e ampiamente disponibili i dispositivi di connessione (Visentini, Cazzarolli, 2019). Le forti economie organizzative e l’aumento di produttività realizzate dalle imprese di ogni dimensione con il passaggio al lavoro “flessibile”, per gli orari e le modalità di impiego imposti dalle misure anti-contagio, hanno accelerato la transizione verso un radicale cambio di paradigma.

Le ricadute di questo stravolgimento non sono positive per tutti. La riduzione dei reparti e delle imprese fisiche e l’aumento della produttività determina fisiologicamente la contrazione dell’occupazione con un effetto moltiplicativo negativo sul fattore lavoro già determinato dalla caduta della domanda in molti settori.

Sul piano urbanistico la forzata sovrapposizione del luogo di lavoro con l’abitazione sta stravolgendo e invertendo i tradizionali flussi intorno ai quali sono esplosi storicamente gli agglomerati urbani con la stessa dinamica che aveva spopolato le aree interne e cala la relativa domanda di unità immobiliari ad uso ufficio e abitative. Le reti del commercio e dei servizi cresciute intorno ai piccoli e grandi poli burocratici, ormai semideserti, stanno scomparendo, cedendo il passo a una rinascita degli esercizi di prossimità.  In questo veloce processo destrutturante delle reti urbane, dell’occupazione e della produzione sembrano apparentemente non essere coinvolti i lavori che richiedono un apporto manuale diretto, come nel settore primario e secondario. Ma questo mancato coinvolgimento potrebbe essere tendenzialmente di breve durata se si saldasse con l’inevitabile punto di arrivo dell’attuale evoluzione delle modalità produttive: la fabbrica e il campo agricolo robotizzati e automatizzati al pari della distribuzione.   

Il futuro che ci aspetta, secondo gli intervistati nell’indagine condotta da Mauceri e Lombardo, è caratterizzato da incertezza e da un peggioramento diffuso delle condizioni economiche. Il peggioramento delle condizioni economiche si prevede riguardi tanto se stessi e la propria famiglia (49,8% degli occupati rispondenti), quanto l’economia nazionale (75,4%), in concomitanza con la più grave crisi economica a partire dal secondo dopoguerra e mondiale (79,2%). Tuttavia, a seconda delle condizioni lavorative individuali, la percezione della situazione economica propria e della famiglia al termine della pandemia e il rischio di perdere il lavoro, assumono configurazioni e dimensioni diverse. I Tutelati e i Vincolati, entrambi dipendenti pubblici, ritengono che le proprie condizioni economiche potranno peggiorare (rispettivamente 44,5% e 46,1%) o rimanere stabili (42,5% e 39,9%) mentre non temono la perdita del posto di lavoro (88,4% e 81,1%). I Privilegiati e i Minacciati, corrispondenti a dipendenti del settore privato, stante anche le loro condizioni lavorative, hanno una percezione più incerta del futuro ipotizzando un peggioramento economico (rispettivamente 53,7% e 54%) e un maggiore rischio di perdere il lavoro (rispettivamente il 25,7% e 32,7%).

In conclusione l’incertezza è tanta ed è difficile se non inutile fare previsioni sui possibili esiti di una crisi che si staglia su un orizzonte del tutto inedito. Tuttavia ritorna e si rafforza per la politica e la scienza della politica la necessità di proporre nuovi modelli di sviluppo sostenibile, di ripartizione della ricchezza prodotta (che si va sempre più concentrando in pochi oligopoli) e di lotta alle nuove povertà materiali e culturali.

La profondità e la drammaticità dell’emergenza ha determinato intanto l’avvenimento più importante in questo anno martoriato: l’inversione della politica economica europea in chiave espansiva. Ci si deve battere per evitare il possibile recupero dei rigoristi e il ritorno alle logiche di Maastricht. Per questo è quanto mai risolutivo per il futuro dell’Europa e quindi del nostro paese che l’Italia dia prova di affidabilità nelle scelte economiche e finanziarie, come è stato al momento dell’ingresso nella moneta unica.

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