DAL LIBRO: CONTRO LA SECESSIONE DEI RICCHI. AUTONOMIE REGIONALI E UNITA’ NAZIONALE
Di Gianfranco Viesti
Laterza, settembre 2023
Questo testo analizza il quadro e le prospettive del regionalismo italiano, e più in generale lo stato del decentramento politico e amministrativo nel nostro paese. È quindi un libro sul potere e sui diritti dei cittadini in Italia. Si occupa dei livelli di governo che hanno maggiore possibilità, per competenze e risorse economiche, di prendere le decisioni più importanti sulle grandi politiche pubbliche. E si occupa di come e quanto, a seconda dell’organizzazione del potere, possono essere garantiti i diritti costituzionali dei cittadini nei diversi territori del paese.
La sua finalità è di chiarire come non si tratti solo di questioni giuridiche o tecnico-amministrative. Tutt’altro: si tratta di temi con una grande valenza politica, che influenzano tanto i principi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani quanto il funzionamento di alcuni grandi servizi pubblici nazionali, a partire dalla scuola.
Le tesi di fondo di questo libro sono due. La prima è che il grande processo di decentramento dei poteri, in particolare a favore delle regioni, che è avvenuto in Italia a partire dagli anni Novanta del XX secolo e poi grazie alla riforma costituzionale del 2001 ha determinato un quadro assai insoddisfacente, ricco di conflitti e di problemi. Un quadro che merita senz’altro una paziente e incisiva azione di miglioramento e di riforma, senza eccessivi sbandamenti né nel senso di un maggiore accentramento dei poteri, né verso ulteriori decentramenti. La seconda è che invece il dibattito politico degli ultimi anni non è orientato a risolvere questi problemi, ma a crearne di nuovi, gravi. È incentrato sulle richieste di decentramento asimmetrico formulate da alcune regioni: un processo che peggiorerebbe certamente la situazione d’insieme, concentrerebbe eccessivamente il potere nelle mani di pochi presidenti di regione e renderebbe ancora più difficile garantire i diritti civili e sociali di tutti i cittadini sull’intero territorio nazionale.
Molti sono i profili insoddisfacenti dell’attuale stato del decentramento politico e amministrativo in Italia: i continui conflitti fra Stato e regioni sulle rispettive competenze, la debolezza di governo e Parlamento nel fissare i principi fondamentali dell’azione pubblica, le tendenze “sovraniste” delle regioni verso un accaparramento di quanto più potere possibile. Ancora, la loro deriva verso funzioni di amministrazione e gestione, il loro soverchiante potere politico e finanziario nei confronti dei comuni, la confusione relativa al governo delle aree vaste, alle funzioni di province e aree metropolitane. Sotto il profilo economico, la tardiva, parziale e sovente distorta applicazione delle norme sul finanziamento di regioni ed enti locali stabilite dalla legge 42 del 2009 in attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione; l’accentuarsi delle disparità nella capacità di fornire servizi ai cittadini, che resta eccessivamente legata alla spesa sostenuta in passato e alle specifiche capacità fiscali: e quindi ai livelli di reddito delle diverse comunità. L’assenza di percorsi di riequilibrio, anche collegati alla mancata determinazione e al mancato finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) previsti dalla Costituzione e al mancato avvio di interventi di perequazione infrastrutturale. Un quadro assai problematico, sotto il profilo sia dell’uguaglianza dei diritti dei cittadini sia dell’efficacia dell’azione pubblica.
Invece di ritessere pazientemente la tela del decentramento e delle sue regole, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei cittadini e dei contesti nei quali le imprese operano, il dibattito politico è condizionato dalle richieste di maggiori poteri e maggiori risorse da parte di alcune regioni ai sensi del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Il regionalismo differenziato, per come sono state concretamente formulate le richieste prima da tre regioni e poi da altre, è invece un processo da evitare. Potrebbe provocare conseguenze negative sull’intero paese e sui suoi cittadini, non solo per quelli delle regioni che non hanno intrapreso questa strada, ma per molti versi anche per quelli delle regioni che desiderano nuove competenze. Non si tratta infatti di decentramento, bensì di una sostanziale “secessione dei ricchi”.
Con “secessione dei ricchi” SI definisce in questo libro il processo che si avvierebbe con la concessione alle regioni delle nuove competenze così come richieste. La parola “secessione” è usata per richiamare una separazione che, seppure non di diritto, sarebbe nei fatti. Le regioni dotate di maggiori autonomie si configurerebbero infatti come delle regioni-Stato, seppur formalmente ancora dentro la cornice nazionale. Esse godrebbero di poteri estesissimi e delle risorse per farvi fronte, anche se in modo differenziato fra di loro. Parallelamente, si avrebbe un depauperamento della capacità del governo e del Parlamento italiano di affrontare questioni vitali per i cittadini attraverso le politiche pubbliche ritenute più opportune. Ad essi rimarrebbero ritagli di competenze per ritagli di territori: l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco, confuso, inefficiente.
La secessione è dei ricchi per due motivi. Lo è in senso geografico, perché sono state le amministrazioni delle regioni a maggior reddito del paese ad avviare questo processo; quindi, all’interno dell’Italia le nuove regioni-Stato includerebbero inizialmente le comunità più ricche, con una cesura netta rispetto al resto del paese. All’obiezione che già oggi l’Italia mostra significative disparità territoriali è facile replicare: esse sono un dato di fatto che l’intero paese, a norma della Costituzione, cerca di contrastare; con l’autonomia regionale differenziata diverrebbero disparità previste dalle norme. Lo è in senso economico-sociale, poiché il processo è spinto dal desiderio degli amministratori di queste comunità di poter disporre di una parte del gettito delle tasse pagate nelle loro regioni superiore a quanto oggi lo Stato spende nei loro territori. Risorse che, a norma di Costituzione, devono essere utilizzate per fornire essenziali servizi pubblici, e quindi garantire diritti di cittadinanza, a tutti gli italiani, indipendentemente dal loro reddito e dal luogo in cui vivono. In Italia vigerebbe una sorta di ius domicilii, che lega i diritti alla residenza.
I capitoli del libro illustrano la situazione e motivano queste valutazioni. Nel capitolo 1 si parte dal quadro europeo dei processi di decentramento politico e amministrativo. Viene ricordato come la realtà dei singoli paesi sia profondamente diversa, a causa tanto delle diverse forme di Stato quanto delle scelte politiche che sono state compiute nel tempo. Negli ultimi decenni è generalmente cresciuil grado di decentramento, anche se esso continua a presentare grandi differenze fra paesi come Germania e Spagna, da un lato, e Francia, dall’altro. Certamente, non è possibile individuare un livello ottimale di trasferimento di poteri dallo Stato nazionale verso regioni ed enti locali: vi sono, in teoria e nell’esperienza internazionale, vantaggi e svantaggi di cui bisogna tenere attentamente conto. Vi sono poi esperienze di decentramento asimmetrico, cioè di poteri diversi attribuiti a enti dello stesso livello di governo, e anch’esse sono in aumento. Tuttavia, riguardano principalmente il governo delle città, sono assai più rare e particolari nel caso delle regioni. Il caso spagnolo è di particolare interesse, soprattutto perché in quel paese vi è un decentramento asimmetrico dei poteri e dei meccanismi finanziari delle comunità autonome (assimilabili alle regioni italiane); ma proprio le vicende spagnole del XXI secolo mostrano i rilevanti rischi di conflitto associati a queste asimmetrie. Il capitolo si chiude ricordando le vicende che hanno portato a processi di secessione: ma argomenta che attualmente, nei paesi membri dell’Unione Europea, sono assai più interessanti le dinamiche che possono portare a “secessioni di fatto” senza rompere formalmente l’unità nazionale, ma modificandola sostanzialmente. Dall’esperienza internazionale si possono trarre tre condizioni per un buon decentramento: la chiarezza su chi fa che cosa; la disponibilità di sufficienti risorse per tutti gli enti di tutti i territori; la possibilità per i cittadini di controllare i loro amministratori e per il governo centrale di intervenire con poteri sostitutivi per garantire i diritti civili e sociali.
Il capitolo 2 analizza il quadro italiano anche alla luce di queste tre condizioni, e mostra come esse non siano soddisfatte. In Italia il ruolo degli enti locali e in particolare delle regioni è fortemente cresciuto dopo la riforma costituzionale del 2001. Ma l’assetto che ne è scaturito è largamente insoddisfacente. Il quadro dei poteri è confuso e conflittuale; nei primi venti anni del secolo, il livello di governo nazionale si è indebolito e si è fortemente accresciuto il ruolo delle regioni e dei loro presidenti, con atteggiamenti di “sovranismo regionale” volti ad accrescere il loro potere e la loro capacità di intermediare risorse pubbliche. Province e aree metropolitane sono in una situazione di grande incertezza, mentre i comuni – storicamente perno del governo locale in Italia e più vicini ai cittadini – sono schiacciati dalla carenza di risorse e dal controllo che le regioni esercitano su di loro. Per di più le autonomie speciali esistenti determinano rilevanti, ingiustificate iniquità. In questo quadro i cittadini non hanno la possibilità di conoscere e giudicare ciò che i loro amministratori fanno, e il livello centrale non interviene per garantire i loro diritti, come è evidente nel caso della sanità. Tuttavia, alla fine degli anni Venti la pandemia Covid ha tragicamente mostrato i costi di questa situazione, e la più importante iniziativa di politica economica, il Pnrr, ha visto una forte centralizzazione del potere nell’esecutivo nazionale.
Il capitolo 3 si occupa degli aspetti economici dell’attuale decentramento italiano. Parte ricordando i principi della legge 42 del 2009 – che mira ad attuare i nuovi articoli della Costituzione relativi al finanziamento di regioni ed enti locali –, fra i quali i capisaldi dell’intero meccanismo: i livelli essenziali delle prestazioni, cioè il nucleo dei diritti sociali e civili da definire e garantire a tutti i cittadini sull’intero territorio nazionale; e i fondi perequativi, volti a determinare parità nei finanziamenti a realtà amministrative operanti in territori di diversa ricchezza. Mostra però come la legge abbia fatto pochissimi passi in avanti. Quasi nessuno per quanto riguarda le regioni, anche considerando che il finanziamento della loro principale voce di bilancio, e cioè la sanità, è organizzato senza tenere conto dei fabbisogni di salute della popolazione. In sanità i livelli essenziali di assistenza esistono da molto tempo, ma sono irrilevanti per determinare fabbisogni e finanziamenti. Per quanto riguarda i comuni, invece, la legge 42 è stata estesamente applicata, anche grazie a un importante sforzo tecnico. Ma a lungo in modo distorto: in assenza dei Lep, i fabbisogni sono stati rapportati alla spesa storica; il fondo di solidarietà comunale viene attuato con tempistiche assai lente, e dovrebbe andare a regime solo trent’anni dopo la riforma costituzionale. In questo quadro, tuttavia, vi sono anche esempi positivi: è il caso del Lep relativo ai nidi fissato nel 2022, e accompagnato da finanziamenti aggiuntivi per consentire a tutti i comuni di raggiungerlo. Vicenda che mostra come siano necessari una determinata volontà politica e un attento disegno tecnico per procedere verso una maggiore uguaglianza fra i cittadini.
I primi capitoli del libro mostrano dunque come nella situazione italiana ci sarebbe bisogno di un’attenta e complessiva rivisitazione tanto delle competenze quanto dei finanziamenti. Ma questi temi non sono sull’agenda politica, che è invece dominata dalle richieste di alcune regioni di ottenere maggiori competenze e maggiori risorse, come si illustra nel capitolo 4. Le attuali vicende dell’autonomia differenziata prendono le mosse da un’iniziativa politica delle giunte regionali di Veneto e Lombardia, e dalle loro richieste di acquisire tutte le competenze possibili e di mantenere nel loro territorio una parte di quello che esse definiscono il loro residuo fiscale. Ma la vicenda ha preso slancio quando alle due si è affiancata l’Emilia-Romagna guidata dal Partito democratico. A inizio 2018 il governo Gentiloni ha siglato Pre-Intese dai contenuti estremamente discutibili con le tre regioni. Il successivo governo Lega-Movimento 5 Stelle è arrivato davvero a un passo dal concedere tutti i poteri e i privilegi finanziari che erano stati richiesti, frenato solo da una riconsiderazione del tema da parte dei 5 Stelle. Dopo essere uscito dalle priorità nel periodo del Covid, il tema dell’autonomia regionale differenziata è tornato in primo piano nel 2022 con il governo Meloni, che ha fatto propria una legge-quadro proposta dal ministro leghista Calderoli per favorire il più possibile le richieste regionali.
Il capitolo 5 spiega perché si tratti di una vera e propria secessione, di fatto anche se non di diritto: la secessione dei ricchi. L’Italia sarebbe radicalmente trasformata con la nascita di regioni-Stato al suo interno. Esse, infatti, godrebbero di poteri estesissimi in materie fondamentali, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’ambiente, alle politiche industriali e in molti altri ambiti, come è dettagliatamente ricostruito nel testo. Avrebbero fine la scuola pubblica italiana, il Servizio sanitario nazionale, il sistema unitario delle infrastrutture e dell’energia. Il tutto in un quadro di estrema confusione, dato che le competenze richieste dalle regioni – a cui è assai probabile che si affianchino subito tutte le altre a statuto ordinario – sarebbero comunque differenziate fra loro. Il governo centrale avrebbe poteri residuali, e competenze su ritagli geografici. L’Italia diverrebbe un paese arlecchino. Un paese nel quale sarebbe impossibile condurre fondamentali politiche nazionali, anche nel solco di quelle europee; e nel quale il sistema delle imprese andrebbe incontro a crescenti difficoltà per la frammentazione legislativa e operativa che si potrebbe creare in molti mercati, dall’edilizia ai prodotti alimentari.
Ma la secessione dei ricchi si verificherebbe anche per gli aspetti economici, come documentato nel capitolo 6. Le regioni richiedenti mirano infatti a ottenere condizioni particolari a loro vantaggio del tutto assimilabili a quelle delle autonomie speciali. Veneto e Lombardia hanno da sempre chiaramente collegato le richieste di autonomia al desiderio di trattenere per sé una parte del cosiddetto residuo fiscale regionale, cioè di un ipotetico ammontare pari alla differenza fra il gettito fiscale e la spesa pubblica che hanno luogo nei loro confini. Si tratta dei “soldi del Nord” della tradizione leghista; ma è un calcolo fuorviante, che non tiene conto delle disposizioni costituzionali relative alla progressività del prelievo fiscale e all’universalità dell’accesso dei cittadini ai servizi pubblici: i residui fiscali fanno capo agli individui, non ai territori. Lo strumento per ottenerlo è complesso tecnicamente, ma chiaro politicamente: la previsione di un’aliquota di compartecipazione al gettito dei tributi nazionali, che consentirebbe alle regioni di godere di risorse garantite senza dover tassare i propri cittadini. Risorse che con il tempo potrebbero crescere, a danno degli altri italiani. E nulla si sa circa altri possibili effetti finanziari a loro vantaggio, ad esempio connessi al trasferimento gratuito di parti del patrimonio pubblico nazionale. A poco vale l’enfasi comunicativa sulla contemporanea determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep): a parte le difficoltà tecniche, fissarli senza garantire risorse aggiuntive molto ampie significa cristallizzare le disparità esistenti.
Il capitolo 7 illustra come i ministri leghisti a cui è stata affidata la questione – prima nel governo Conte I, poi nel governo Meloni – abbiano coerentemente cercato di prevedere modalità procedimentali per arrivare all’autonomia differenziata, le più favorevoli possibili per le regioni. Sono basate sulla centralità della trattativa fra gli esecutivi nazionale e regionale, sulla marginalizzazione del ruolo del Parlamento, cui sarebbero affidati compiti di mera testimonianza, sulla massima segretezza possibile sugli specifici contenuti delle Intese Stato-regioni, da tenere accuratamente al riparo dall’attenzione dell’opinione pubblica, sul trasferimento delle fondamentali scelte di dettaglio a commissioni paritetiche, sempre Stato-regioni, con decisioni anch’esse al riparo dall’intervento del Parlamento e della Corte costituzionale. Ripercorre gli eventi della prima metà del 2023 e tira infine le fila, sostenendo che l’Italia ha bisogno di un paziente processo di riscrittura dei suoi assetti decentrati, senza nostalgie centralistiche e fughe in avanti regionaliste. E che in questo processo, le richieste di maggiore autonomia così come presentate dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna vanno integralmente respinte. L’articolo 117 della Costituzione va rivisto; il terzo comma dell’articolo 116 eliminato, o quantomeno radicalmente trasformato, come proposto della legge di iniziativa popolare promossa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale. Ne va del futuro dell’Italia nei prossimi decenni.
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